
Siamo abituati a considerare il Terzo Reich una macchina di agghiacciante efficienza. Un apparato militare capace di soggiogare l’intera Europa e al tempo stesso di perpetrare un immenso sterminio su scala industriale. Uno Stato totalitario con una presa impressionante sulla sua popolazione, disposta a sacrificarsi fino all’ultimo in una lotta disperata. Viene da pensare che la Germania nazionalsocialista fosse retta da un sistema di governo particolarmente funzionale.
E invece, dimostra lo storico inglese Ian Kershaw nel libro da venerdì 18 luglio in edicola per un mese con il «Corriere», la situazione era ben diversa. L’accentramento dell’intero potere decisionale nella persona di Adolf Hitler produsse effetti profondamente irrazionali. Tutto dipendeva dal Führer — comprese questioni futili come la scelta se vietare o meno le corse dei cavalli durante la guerra — e l’influenza dei singoli gerarchi corrispondeva al grado di favore di cui godevano presso il capo supremo. Ciò a lungo andare, sottolinea Kershaw, non poteva che avere conseguenze autodistruttive, mascherate inizialmente da vittorie militari ottenute seguendo una logica di continuo azzardo. Hitler si era elevato a padrone assoluto di una grande potenza partendo da una condizione di emarginato. Lo aveva fatto scommettendo costantemente il tutto per tutto in un ossessivo gioco al rialzo, con una serie stupefacente di successi. A un certo punto si ritrovò prigioniero della fiducia sconfinata che aveva in sé stesso, fino a trascinare la Germania in una catastrofe abissale. Resta però da capire come un uomo del genere — dotato di un’oratoria trascinante e di una formidabile memoria, ma dall’orizzonte intellettuale assai ristretto — abbia potuto giungere così in alto, procurandosi un favore popolare vasto e profondo, spinto in molti casi fino al fanatismo più cieco, in un Paese tanto avanzato, istruito e civile. Kershaw individua la spiegazione di questo «enigma», richiamato nel titolo del libro, in diversi fattori.
Il magnetismo personale del Führer non sarebbe bastato se le sue idee non si fossero incontrate con lo stato d’animo diffuso di una popolazione esasperata e impoverita, che attendeva il messia destinato a redimerla. E poche cose in politica funzionano come la designazione di un capro espiatorio. Hitler il nemico da annientare, tanto più insidioso perché abile nel camuffarsi e nel colpire a tradimento, lo indicava nella «razza ebraica», rinfocolando i pregiudizi mai spenti della tradizione antisemita. Agli israeliti riconduceva poi altre due minacce: il potere invisibile della grande finanza cosmopolita e l’ascesa del movimento operaio di matrice marxista, quindi giudaica. A una Germania disorientata e frustrata, immiserita dalla crisi economica scoppiata nel 1929 e già condizionata dal falso mito secondo cui il suo esercito era stato sconfitto nella Prima guerra mondiale perché sorpreso da una «pugnalata alle spalle» inferta dai socialisti, Hitler offriva una spiegazione elementare delle sue sofferenze. Numerosissimi elettori cedettero al suo fascino oscuro e lo premiarono con un consenso imponente. Tuttavia forse il tribuno nazionalsocialista non sarebbe riuscito a imporsi se la classe dirigente tradizionale non avesse ritenuto di poterlo controllare.
Un errore di presunzione che Kershaw denuncia con forza. Vertici militari, industriali, banchieri, magistrati, alti burocrati tedeschi si convinsero che puntare su quell’istrionico capopopolo poteva essere conveniente. Hitler avrebbe incantato le masse con le sue sceneggiate, ma il potere reale, nelle intenzioni dei ceti dominanti, sarebbe rimasto ben saldo nelle loro mani. Nulla di più sbagliato, evidenzia Kershaw. Lungi dall’essere uno strumento della reazione, il nazionalsocialismo era un fenomeno di estrema radicalità rivoluzionaria. Il Führer accettò inizialmente il compromesso. Nominato cancelliere nel gennaio 1933, formò un governo pieno di esponenti del vecchio mondo conservatore. L’anno dopo, anche per compiacere l’esercito, liquidò l’ala più irrequieta delle camicie brune con la «notte dei lunghi coltelli». Ma intanto il potere carismatico del dittatore erodeva ogni vincolo, mentre i suoi fedeli prendevano il controllo delle funzioni più delicate dello Stato, a cominciare da quella poliziesca. La politica, ricorda Kershaw, affermò ben presto il suo primato sull’economia, con la prevalenza delle tendenze autarchiche rispetto ai settori industriali orientati verso i mercati internazionali.
Poi giunse la resa dei conti con l’esercito, quando vennero silurati il ministro della Guerra Werner von Blomberg e il comandante dell’esercito Werner von Fritsch. Da quel momento le forze armate furono ligie agli ordini di Hitler. Solo nel luglio 1944 alcuni ufficiali tentarono di rovesciare il regime, ma il dittatore sopravvisse alla bomba che doveva ucciderlo e il nazionalsocialismo rimase in sella fino alla totale disfatta. La realtà è che il Terzo Reich mostrò un’eccezionale capacità di tenuta, nonostante la sua vocazione autodistruttiva e il progressivo deterioramento dello stato fisico e mentale di Hitler. Al contrario di quanto successe in Italia, dove era rimasta in piedi la monarchia e l’esercito aveva mantenuto un certo grado di autonomia, in Germania attorno al regime c’era il deserto. Esistevano vari centri di potere, ma i gerarchi non avevano alcuna possibilità di staccarsi dal despota al quale si erano completamente affidati. Ozioso risulta infine domandarsi che cosa sarebbe potuto accadere se il Terzo Reich avesse vinto la guerra. Hitler aveva messo in moto forze impossibili da dominare. E la forma di potere che aveva instaurato era strutturalmente instabile, cercava sempre nuovi traguardi da superare in una corsa verso il nulla. Riesce impossibile anche immaginare una successione alla sua morte, dato che un carisma del genere era irripetibile e non vi era alcun meccanismo predisposto a sostituirlo. Più lo si studia e più il Terzo Reich appare un caso unico, sul quale gli storici continueranno a interrogarsi.
Analisi, domande: il libro disponibile un mese
Perché proprio Hitler? Come è stato possibile che un individuo così mediocre, un «signor nessuno», sia arrivato a esercitare un influsso tanto drammatico sui destini di individui e nazioni, a scatenare il Secondo conflitto mondiale e a mettere in piedi la Shoah? Nel saggio Hitler e l’enigma del consenso Ian Kershaw (1943), storico britannico, autorevole biografo del Führer, ne analizza il potere e la forza carismatica che dapprima ne fece il tamburino delle masse nazionaliste, l’uomo capace di offrire a più di tredici milioni di tedeschi la speranza della salvezza nazionale, e infine lo trasformò nel terribile dittatore responsabile di tanto orrore. A cento anni dalla pubblicazione del Mein Kampf — il libro autobiografico in cui Hitler espose il suo pensiero politico e delineò il programma del Partito nazista, la cui prima parte uscì nell’estate del 1925 (la seconda nel 1926, le due insieme in un unico volume nel 1930) — queste domande rimangono attuali e investono la natura del potere politico e del consenso di massa nei regimi autoritari. Ecco perché il Corriere della Sera, in collaborazione con Laterza (che lo aveva pubblicato per la prima volta in italiano nel 1997), manda oggi in edicola il volume di Kershaw (traduzione di Nicola Antonacci, pp. 308) uscito in inglese nel 1991. Con la Premessa del giornalista del «Corriere» Antonio Carioti, della quale proponiamo in questa pagina una sintesi, il libro è in edicola a e 9,90 più il prezzo del quotidiano, disponibile per un mese.
17 luglio 2025 (modifica il 17 luglio 2025 | 21:42)
© RIPRODUZIONE RISERVATA
17 luglio 2025 (modifica il 17 luglio 2025 | 21:42)
© RIPRODUZIONE RISERVATA