
Il fenomeno dei combattimenti tra cani ha origini antiche e affonda le sue radici almeno nella storia etrusca e in quella degli antichi romani. La propensione dei nostri antenati per gli spettacoli circensi, che prevedevano scontri tra animali e tra uomini e animali o tra uomini e altri uomini, è del resto ben nota e i grandi anfiteatri arrivati ai giorni nostri sono lì a testimoniarlo. Queste pratiche si sono trascinate nel corso dei secoli. Si sarebbe portati a pensare che nel 2025 il fenomeno sia ormai definitivamente tramontato, o quanto meno in declino. E invece non è così. Anzi.
I combattimenti si svolgono ancora in molte parti del mondo, seppure siano praticamente ovunque illegali. E l’Italia non è indenne. Se fino a qualche tempo fa nel nostro Paese erano organizzati prevalentemente al Sud (così come le corse clandestine di cavalli), oggi sono sono diffusi in tutto il territorio nazionale. Sia per i grandi interessi economici che generano, grazie al redditizio giro di scommesse che li accompagna e che stuzzicano l’ingordigia delle organizzazioni malavitose distribuite in tutte le Regioni; sia per esigenze di autotutela da parte di chi li organizza, perché cambiando e delocalizzando spesso i luoghi dei combattimenti viene resa più difficile l’attività di indagine e repressione delle forze dell’ordine.
Potrebbe sembrare complicato spostare gli animali da una parte all’altra. Ma da anni entra in gioco anche il fenomeno delle finte staffette che, mimetizzandosi tra quelle regolari, anziché portare da una regione all’altra cani provenienti dai rifugi per favorirne l’adozione conducono «in tournée» gli animali combattenti. I gruppi malavitosi locali provvedono poi a individuare le location in cui allestire i ring. Gli animali gettati nella fossa vengono selezionati fin da cuccioli, individuando quelli potenzialmente più aggressivi all’interno di cucciolate frutto spesso di accoppiamenti tra consanguinei di cui era già dimostrata l’aggressività. O importandoli dall’estero. Vengono poi addestrati alla violenza da persone che si sono specializzate in questo, in varie regioni italiane ma anche in Serbia, come conferma Irene Davì, comandante del Reparto operativo del raggruppamento Carabinieri Cites.
I futuri combattenti vengono fatti allenare contro altri cani, anche questi spesso importati o trafugati. Le organizzazioni che se ne occupano spesso sono dedite anche ad altre attività criminali, come lo spaccio di droga. «Un fenomeno crescente – dice ancora la comandante – è quello dei combattimenti interspecifici, per esempio tra cani e cinghiali». «L’auspicio – aggiunge Davì – è che ci siano dati strumenti sempre più efficaci per combattere contro una criminalità dedita al sadismo e attratta da questo denaro facile e sporco di sangue».
Se ne è parlato oggi al Senato, a margine della presentazione di uno studio sul profilo psicologico e comportamentale del «dogfighter» e sugli aspetti criminologici del combattimento tra cani. Una ricerca condotta nell’ambito del progetto «Io non combatto», portato avanti ormai da alcuni anni da Humane World for Animals (già Humane Society International) e dalla Fondazione Cave Canem. L’analisi è stata realizzata da Carolina Salomoni, biologa, e da Angela Maria Panzini, laureanda in Giurisprudenza, assegnatarie di una specifica borsa di studio, affiancate da Martina Pluda, direttrice per l’Italia di Hwa, Federica Faiella, presidente di Cave Canem, e di Alessandro Fazzi, esperto di tutela giuridica degli animali.
La mappatura del fenomeno è importante e altrettanto lo sono gli approfondimenti sulle motivazioni e sugli aspetti psicologici e caratteriali di coloro che vengono coinvolti. Il dato che emerge è che alla base della propensione a commettere o ad assistere a violenze sugli animali c’è, in aggiunta a retaggi dovuti al contesto sociale in cui le persone sono cresciute, una mancanza di empatia. A cui, tuttavia, si può provare a porre rimedio ex post, per esempio con progetti di riabilitazione all’interno delle carceri per quei soggetti che si sono resi responsabili di delitti contro gli animali. Molte esperienze di questo genere, in Italia e all’estero, stanno dando risultati positivi.
Le porte dei penitenziari, tra l’altro, potrebbero aprirsi molto più spesso dai prossimi giorni perché l’entrata in vigore della riforma Brambilla, che ha inasprito le pene per molti reati in danno degli animali, ha innalzato fino a 4 anni della condanna massima anche per chi organizza e gestisce i combattimenti tra cani, con aggravanti in presenza di minori o se vengono poi riprese e diffuse immagini degli scontri, e prevedendo la responsabilità anche di chi va ad assistervi, considerato di fatto complice. «C’è una brutalità non solo fisica ma anche culturale dietro a queste attività – sottolinea Alessandro Fazzi, che è anche nello staff della senatrice Anna Bilotti (M5S), promotrice dell’incontro -. L’organizzazione di questi combattimenti è un reato ma anche un tradimento della nostra stessa umanità e del nostro rapporto con gli animali».
26 giugno 2025
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