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Chi sono i 5 uomini di Hamas nel mirino di Israele a Doha. Dall’americano al sopravvissuto, gli obiettivi del raid in Qatar

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Questa volta non è stata una sorpresa. O meglio lo è stata solo parzialmente. Una settimana fa i vertici israeliani avevano minacciato di eseguire omicidi contro i capi all’estero. Figure che di solito vivono e si muovono tra Egitto, Qatar, Turchia: Paesi che per Netanyahu non sono più santuari nonostante il lavoro di mediazione. E forse non lo sono mai stati agli occhi dello Stato ebraico che però aveva evitato di sferrare il colpo dopo richieste precise da parte di Doha. Ma tutto è cambiato con la volontà di Bibi di cancellare fisicamente il nemico. A Gaza dando la caccia all’ultimo leader Izzedine al Haddad e costringendo la popolazione alla fuga. All’esterno di questi confini, come successo a Doha, inseguendo personaggi che hanno partecipato alla trattativa, un’operazione che ha violato regole internazionali, ristretto gli spazi diplomatici e probabilmente non ha raggiunto l’obiettivo prefissato. Ecco chi erano gli obiettivi.

Khalil al Hayya. Mente politica e riferimento per l’ala militare, ha ricoperto numerosi incarichi istituzionali ma soprattutto si è fatto notare per sortite severe anche nei confronti di alleati e sponsor. In passato ha riservato carezze e stilettate all’Iran, di recente ha preso di mira Egitto e Giordania perché non sono intervenuti al fianco dei palestinesi. Un attacco che avrebbe mandato su tutte le furie il presidente egiziano al Sisi. Infatti, erano usciti articoli su una presunta «scomparsa» dalla scena di al Hayya proprio in seguito alle frizioni.

Legato a Yahya Sinwar — per alcuni aveva buone possibilità di esserne il successore —, scampato a un attacco nel 2007, ha rafforzato la sua sfera di potere ed è stato protagonista di gesti teatrali. Famosa, nel 2016, la consegna della spada del fondatore di Hamas, sheikh Ahmed Yassin, ai nipoti: «È la spada della liberazione e della vittoria…Dovrà passare di generazione in generazione». Secondo diverse analisi la sua posizione sarebbe diventata ancora più rilevante all’interno del comitato in esilio. 

Khaled Meshal Nato nel 1956 a Silwad, in Cisgiordania, si è laurato in Kuwait ed ha intrapreso la professione di insegnante. Ma il suo vero lavoro è sempre stata la politica nel segno di Hamas e si è spostato spesso tra le capitali del Medio Oriente per poi dirigere il politburo, poltrona in seguito persa per contrasti interni. Lo hanno spesso considerato un esponente radicale, ostile a qualsiasi forma di dialogo. Nel 1996 è stato vittima di un attentato ad Amman, quando il Mossad ha tentato di avvelenarlo con la «pozione di Dio», una sostanza tossica iniettatagli da due agenti catturati subito dopo. È, però, sopravvissuto grazie all’intervento dell’allora re Hussein che costrinse il premier Netanyahu a consegnare l’antidoto e a liberare Ahmed Yassin in cambio del rilascio dei due 007. Meshal aveva scelto in seguito come base principale Damasco ma sarà costretto a fare le valige nel 2012: non aveva mascherato il proprio sostegno in favore dei ribelli anti-Assad, scelta non tollerata dal regime. All’indomani dell’assalto del 7 ottobre è diventato più visibile sulla scena regionale e per qualche osservatore ha assunto una linea pragmatica. 

Zaher Jabarin Originario della West Bank, ha partecipato alla lotta armata e per questo è finito in una prigione israeliana. Tornato libero con uno scambio di prigionieri e costretto all’esilio, ha svolto una doppia funzione. Da un lato si è occupato dei prigionieri palestinesi, dall’altra ha curato la rete di finanziamento gestendo i fondi assicurati da offerte, governi, sponsor. Forte il legame con le Brigate al Kassam, altrettanto stretto il vincolo con gli affiliati al movimento nella Cisgiordania. Per questo è finito nella lista nera del nemico.

Musa Abu Marzouk Nato a Gaza, è riuscito a studiare in un’università americana, per poi dedicarsi all’impegno nella fazione fino a guidare nella prima metà degli anni ‘90 il politburo. Successivamente si è occupato delle relazioni esterne di Hamas, operando tra Amman e il Cairo, tappe intermedie prima del trasferimento in Qatar dove ha raggiunto altri rappresentanti. Da qui ha gestito l’ultimo segmento, convulso, fatto di ricatti e condizioni. Israele e Hamas, sfiancando e beffando i mediatori, hanno proseguito con la strategia della dilazione. Mosse per guadagnare tempo senza fare reali concessioni. 

Husan Badran È stato definito il portavoce della diaspora anche se la sua specialità non è mai stata la comunicazione. Gli israeliani lo hanno indicato come uno degli artefici della campagna di terrore durante la seconda intifada, attività portata avanti dagli uomini bomba mandati a farsi saltare all’interno di bar e luoghi pubblici. Catturato, ha riacquistato la libertà sempre con il baratto organizzato da Hamas quando, in cambio del soldato Shalit, ha ottenuto il rilascio di un gran numero di combattenti. Sempre intenso il collegamento con gli elementi della Cisgiordania e i finanziatori «stranieri».

Ormai, in qualsiasi crisi, dal Medio Oriente all’Ucraina, conta solo il fatto compiuto. E non sarebbe «strano» se lo strike di Doha fosse seguito da incursioni in altre capitali.

9 settembre 2025

9 settembre 2025

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