Home / Esteri / Chi ferma le sirene? L’ora dei moderati

Chi ferma le sirene? L’ora dei moderati

//?#

Alla fine della presentazione del mio nuovo libro a Milano, una fila di persone si mette in coda per il firmacopie. Di solito in situazioni simili in Italia un paio di persone si rivolgono a me in un ebraico smozzicato. Questa volta quasi tutti quelli che mi chiedono la dedica sul libro mi salutano dicendo shalom. Mi rivolgo alla mia traduttrice e le chiedo cosa sta succedendo, sembrerebbe che tra i gruppi della comunità ebraica sia girato un messaggio WhatsApp che invitava tutti a presenziare. Lei conferma i miei sospetti: un provocatore pro-palestinese ha lanciato un appello sui social, minacciando di impedire lo svolgimento dell’evento. 

Dal mattino nella comunità gira un messaggio che invita ad «andare a difendere Eshkol». Alcune delle persone che hanno risposto alla chiamata sono entrate nella sala, altre sono rimaste all’esterno per monitorare la situazione. Sorpreso da tanta solidarietà continuo a firmare libri, continuo a salutare. Solo dopo parecchio tempo mi rendo conto che, senza accorgermene, in tutte le dediche invece di scrivere la data dell’evento, 7 maggio, ne ho scritta e riscritta un’altra: 7 ottobre. 

Nel rifugio con mia figlia

Il giorno dopo il mio rientro dall’Italia, all’ora di pranzo, parte la sirena. Dopo un lungo periodo senza allarmi. Assieme a mia figlia minore mi precipito nel rifugio. È un rifugio che condividiamo con i vicini di casa, una famiglia emigrata in Israele dagli Stati Uniti. Anche loro figlio entra nel rifugio con la tata. Lui ha undici anni, la mia tredici. È innamorato di lei. So che è innamorato di lei perché la guarda sempre con lo stesso sguardo con cui ammiravo la figlia dei nostri vicini quando ne ero innamorato. Ma adesso ha paura di morire. «We are going to die», stiamo per morire, annuncia e poi ripete di nuovo, «we are going to die». Mia figlia cerca di tranquillizzarlo. Gli spiega che abbiamo un sistema di difesa antimissile. Andrà tutto bene. Il ragazzino non si lascia persuadere. È sinceramente convinto che quelli siano i suoi ultimi istanti di vita e non se lo può più tenere dentro: la guarda e dice, «I love you». Poi si avvicina e l’abbraccia. Le arriva su per giù al collo. Lei gli restituisce un abbraccio fiacco e in contemporanea lo scosta con garbo. Si sentono due boati, abbastanza vicini, e un minuto dopo l’applicazione lampeggia segnalando che siamo liberi di uscire. But «I love you» ripete il bambino, in tono più disperato, a mia figlia. Lei annuisce in silenzio. Usciamo dal rifugio e ce ne torniamo ognuno a casa sua. Mia figlia è assennata, gentile e bellissima, presumo che sentirà ancora molte dichiarazioni d’amore. Ma con tutta probabilità non dimenticherà di aver sentito la prima in un rifugio. Continuo a correre. Ogni mattina. Quando ho iniziato ho deciso che avrei corso fino a quando la guerra sarebbe terminata. 

Come Forrest Gump

Chi immaginava che sarebbe durata otto mesi, e ancora non ne vediamo la fine? Non posso fare a meno della mia dose giornaliera di endorfine. Senza rischierei di lasciarmi risucchiare dalla tristezza, ci sprofonderei dentro, mi arrenderei. Il percorso è fisso. Il numero di chilometri è fisso. Non ho alcuna pretesa di correre una maratona, o di diventare un Iron Man, voglio solo iniziare la giornata scacciando la disperazione. Eppure quando una mattina incrocio una mamma con il suo bambino che mi guarda e le chiede: «Mamma, perché questo signore corre così lento?», un po’ offeso e un po’ divertito accelero per non sentire la risposta. E immagino la mia prima corsa una volta che la guerra sarà finita: come sarà veloce, leggera, spensierata

Al porto con Or

Si chiama Or. È un soldato, durante una licenza fuori da Gaza mi ha scritto una lunga email per raccontare che legge i miei libri nelle pause tra un combattimento e l’altro. Adesso è fermo di fronte a me, siamo al porto di Tel Aviv alla fine di un evento. Non sorride. Sembra che gli abbiano cavato fuori tutta la gioia. Mentre mi porge il libro da firmare gli tremano le mani. Trema in tutto il corpo, in effetti. Come se avesse freddo, anche se siamo nel pieno dell’estate israeliana. I tuoi libri, dice, hanno rappresentato il mio unico contatto con la realtà mentre ero lì. Gli chiedo di spiegare. Fatica. Deglutisce. Cerca parole. È un’allucinazione, quello che succede a Gaza, dice alla fine. Una vera follia. Ho l’impressione che stia per piangere, ma riesce a trattenersi. Piange dentro. Gli scrivo nel libro una dedica personale. Mi ringrazia e io ribatto che sono io a doverlo ringraziare. Protegge me, tutti noi. A quel punto anche le persone in fila dietro di lui, che devono aver ascoltato la nostra conversazione, lo ringraziano. 

Donne combattenti

La mia seconda figlia si arruolerà tra sei mesi. Vuole servire come combattente. A causa della guerra l’esercito ha più che mai bisogno di donne combattenti, perciò la invitano a un incontro preliminare, che di fatto è una giornata di marketing. Resto in tensione tutto il giorno. Dentro di me spero che qualcosa nell’incontro reale con l’esercito, la polvere, l’ottusità e i cliché, la faccia desistere. Cosa c’entra una ragazza vegana con i dreadlocks con combattimenti e sangue? Torna entusiasta. Le hanno raccontato che ci sono diverse possibilità per le donne che vogliono servire come combattenti e a lei suonano tutte interessanti. A me suonano tutte pericolose. L’ho educata ad amare il suo Paese, l’ho educata a pensare che ciascuno deve dare il suo contributo alla società, ma se fosse richiesta la firma dei genitori per farla entrare nelle file dei combattenti non sono sicuro che firmerei. Ad ogni modo nessuno me la chiede. E nemmeno a sua madre. Il conto alla rovescia è iniziato. 

Il video di Noa

Ma forse in fondo al tunnel c’è una luce? Mentre scrivo queste righe quattro ostaggi sono stati liberati con un’operazione militare. Guardo e riguardo il video del padre di Noa Argamani che l’abbraccia dopo la liberazione. Non posso fare a meno di immaginarmi al suo posto. Sul tavolo c’è una proposta americana per una tregua. Non è l’ideale. Non è quello che volevamo. Ma chi aspira a una vita normale, ai due lati del confine, dovrà accettare compromessi. Gli estremisti, da entrambe le parti, hanno imposto le loro condizioni per troppi anni. È giunto il tempo dei moderati. 

(Traduzione di Raffaella Scardi
Questa è la nona  puntata del diario di guerra di Eshkol Nevo. La prima puntata è uscita sul Corriere il 7 novembre, la seconda il 3 dicembre, la terza il 27 dicembre 2023, la quarta il 23 gennaio 2024, la quinta il 22 febbraio, la sesta il 26 marzo, la settima il 10 aprile, l’ottava il 26 maggio)

16 ottobre 2025

16 ottobre 2025

Fonte Originale