
È stato il Tribunale dei ministri a sollecitare l’indagine a carico di Giusi Bartolozzi per le «false dichiarazioni» rese da testimone sul caso Almasri. Quando hanno trasmesso alla Procura di Roma la richiesta di autorizzazione a procedere contro i ministri Carlo Nordio e Matteo Piantedosi insieme al sottosegretario Alfredo Mantovano per l’invio alla Camera dei deputati, le tre giudici del collegio hanno emesso un provvedimento separato riguardante la capo di gabinetto del Guardasigilli, segnalando al procuratore Francesco Lo Voi la violazione dell’articolo 371 bis del codice penale. Per il quale deve procedere la magistratura ordinaria.
Di qui l’iscrizione di Bartolozzi sul registro degli indagati, che essendo magistrata ha comportato il contestuale avviso al Consiglio superiore della magistratura, al procuratore generale della Cassazione e al ministro della Giustizia. Che è come dire alla stessa indagata, principale collaboratrice di Nordio.
Si è aperto così un fascicolo distinto e separato da quello approdato a Montecitorio, che non ha bisogno di alcun vaglio parlamentare. Tuttavia, dal momento in cui s’è saputo della nuova indagine molti nella maggioranza di centrodestra hanno cominciato a dire (pure ieri nella Giunta per le autorizzazioni) che la capo di gabinetto dovrebbe essere chiamata a rispondere «in concorso» con il suo ministro; quindi accusata degli stessi reati (omissione d’atti d’ufficio, favoreggiamento e peculato). Con l’effetto di estendere anche a lei lo «scudo» dell’autorizzazione a procedere (che sarà negata). Tesi rafforzata dall’opinione di qualche docente di Diritto.
Il problema è che questa ipotesi è stata già valutata e respinta dal giudice competente, cioè lo stesso Tribunale dei ministri, che ha ritenuto di non coinvolgere negli ipotetici reati i collaboratori dei membri del governo inquisiti. Nell’interlocuzione che ha preceduto la decisione finale, il procuratore Lo Voi aveva evidenziato che sulla base degli elementi emersi durante l’indagine svolta dal collegio andava analizzata anche la posizione di Bartolozzi, che certamente ebbe un ruolo nella scelta del governo di non convalidare l’arresto del generale libico ricercato dalla Corte penale internazionale, di farlo scarcerare e infine riportarlo in patria con un aereo dei servizi segreti.
Il Tribunale aveva già messo in risalto le dichiarazioni «inattendibili e anzi mendaci» della capo di gabinetto, e il procuratore aveva invitato le tre giudici a considerare se fossero un indizio dell’eventuale correità di Bartolozzi con il ministro oppure altro, che inevitabilmente si sarebbe tramutato nelle ipotetiche «false informazioni». Il Tribunale ha scelto la seconda strada, lasciando solo in capo ai ministri (e al sottosegretario con delega alla Sicurezza) la responsabilità dei reati contestati. Valutazione in qualche modo confermata a posteriori dallo stesso Nordio quando ha dichiarato, il 7 agosto scorso, che «tutte le azioni» di Bartolozzi «sono state esecutive dei miei ordini».
La maggioranza di centrodestra, avendo i numeri, può anche imporre alla Giunta di rimandare gli atti al Tribunale chiedendo l’integrazione di Bartolozzi e, in caso di prevedibile diniego (vista la valutazione già fatta e la determinazione già espressa), sollevare il conflitto tra poteri dello Stato davanti alla Corte costituzionale. Ma al momento l’unico effetto sarebbe quello di allungare i tempi del procedimento penale a carico dei ministri e dunque la sospensione di quello a carico della capo di gabinetto, come previsto dal codice.
Del resto, la collaboratrice di Nordio non è l’unico «tecnico» che ha partecipato alle riunioni con Palazzo Chigi contribuendo alle scelte che hanno portato alla liberazione di Almasri. C’erano, fra gli altri, il capo del servizio segreto esterno Giovanni Caravelli, il capo della polizia Vittorio Pisani, il direttore del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza Vittorio Rizzi, tutti testimoni ascoltati dal Tribunale come Bartolozzi. E come Bartolozzi non considerati «complici» dei componenti del governo.
Anche le loro deposizioni sono state valutate dal collegio, a volte in maniera critica. Caravelli, ad esempio, avrebbe fornito una versione «poco verosimile», sostenendo di aver saputo che Almasri era sotto indagine della Cpi solo dopo l’arresto; e le risposte di Rizzi sono state giudicate «laconiche» ed «evasive» quando gli è stato chiesto di precisare i termini delle discussioni, soprattutto per ciò che riguarda le posizioni espresse dal ministero della Giustizia, e quindi da Nordio e dalla sua capo di gabinetto.
In generale — hanno scritto le tre giudici — le deposizioni di chi ha partecipato alle riunioni «risultano in certa misura reticenti e contraddittorie», in particolare quando hanno cercato di sostenere che in quegli incontri riservati non erano state prese decisioni. Ma secondo il Tribunale «non possono dirsi senz’altro mendaci». A differenza di quelle di Bartolozzi, per le quali il giudizio è stato netto e chiaro. Al punto da imporre alla Procura di indagarla per «false dichiarazioni».
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10 settembre 2025
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