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Caso Almasri, l’irritazione nel governo per i tempi dell’inchiesta. «Il Parlamento dirà no»

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Rinunciare alla immunità parlamentare e chiedere che ora venga concessa l’autorizzazione a procedere? Il ministro della Giustizia Carlo Nordio non ci pensa affatto ad accogliere le richieste dell’opposizione. «Non si può fare», ha spiegato ai suoi collaboratori, alzando il sopracciglio per quell’«errore di procedura: non è un’autorizzazione a procedere di quelle solite, ma una legge costituzionale a garanzia della carica e non della persona, e quindi non è rinunciabile»

Per altro, ha aggiunto a chi gli poneva il quesito in via del tutto ipotetica, «il Parlamento non deve pronunciarsi sull’esistenza del reato ma se sia stato commesso nell’interesse dello Stato». Non c’è nemmeno da valutare se ci sia o meno il «fumus persecutionis», ha assicurato il Guardasigilli sicuro che la richiesta del Tribunale dei ministri finirà nel nulla. Non solo perché, è il suo mantra, «non c’è stata alcun omissione di atti di ufficio e tantomeno di favoreggiamento» del torturatore libico Almasri. E, ha sempre detto, «quando ci sarà la discovery degli atti potrò finalmente parlarne e facilmente dimostrarlo». Ma anche perché non c’è alcuna possibilità che la maggioranza dia il via libera ai magistrati, avendo già presentato l’inchiesta come una sorta di ritorsione politica per la riforma costituzionale della separazione delle carriere.

Certo l’irritazione tra i membri del governo è palpabile già di prima mattina quando si scopre che il fascicolo del Tribunale dei ministri sul rilascio del torturatore libico Osama Almasri è stato trasmesso al procuratore di Roma Francesco Lo Voi da quattro giorni. E quando arriva a Montecitorio per votare il membro del Csm, Nordio ai cronisti fa notare che la legge prevede che gli atti siano trasmessi «immediatamente».

È il segno di quella irritazione. Perché — ci si interroga a Palazzo Chigi nei contatti tra la presidente del Consiglio e i suoi ministri — attendere tanto tempo prima di notificare il carteggio alla giunta delle autorizzazioni a procedere? Perché si è lasciato che trascorressero tre giorni prima di comunicare alla premier Giorgia Meloni che la sua posizione era stata archiviata? «Guardate le date», è l’invito che arriva dai membri del governo finiti sotto inchiesta. La ricostruzione «politica», che però nessuno in Procura conferma, è che il 1 agosto il Tribunale dei ministri ha trasmesso al capo della Procura «i decreti riguardanti le decisioni sulla premier Giorgia Meloni, sul sottosegretario Mantovano e sui ministri Nordio e Piantedosi. Il 4 agosto quello di Meloni è stato inviato alla legale, Giulia Bongiorno». Poi — si sottolinea — più nulla. E invece, questo è il punto evidenziato, «la norma prevede che il procuratore debba trasmettere immediatamente al presidente della Camera gli atti ricevuti dal Tribunale dei ministri».

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Era già accaduto al momento della notifica dell’avvio del procedimento che lo scontro Procura-governo raggiungesse livelli alti. Si ripete adesso che l’inchiesta è alla fine e i toni continuano ad essere aspri, con la presidente del Consiglio che, dopo aver ricevuto l’avviso di conclusione dell’indagine e aver saputo di esserne uscita, ha voluto marcare «la vicinanza» ai suoi ministri, quasi irridendo i giudici che «pensano io non sappia quello che fanno i ministri su un caso così». E quasi a sfidarli, rivendicando la responsabilità di tutte le scelte. È ciò che spinge l’opposizione ad attaccare duro e a sospettare che la premier voglia rientrare nel processo per raccontarsi come vittima. Ma, sostengono a Palazzo Chigi, la verità è un’altra: la linea è ribadire che il governo ha agito unito, e tale resta.


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6 agosto 2025 ( modifica il 6 agosto 2025 | 01:09)

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