
La mattina di martedì 21 gennaio, quando il generale libico Osama Najeem Almasri era detenuto da due giorni e la corte d’appello di Roma stava per decidere se tenerlo in carcere oppure no, ai magistrati in servizio al ministero della Giustizia che lavoravano per risolvere ogni problema giuridico e consegnare il ricercato alla Corte penale internazionale, parve evidente che ne rimaneva uno per loro insormontabile. Un problema politico.
Come ha spiegato al Tribunale dei ministri la dottoressa Cristina Lucchini, che dirigeva l’ufficio Cooperazione giudiziaria internazionale, dalle varie riunioni e consultazioni con la capo di gabinetto del Guardasigilli Carlo Nordio, Giusi Bartolozzi, «era chiaro che le valutazioni non erano solo giuridiche, ma implicavano contesti ai quali loro, essendo un ufficio tecnico, non potevano avere accesso».
I collaboratori di Nordio avevano preparato il provvedimento da far firmare al ministro che avrebbe sanato ogni eventuale vizio del fermo di Almasri; compresa la questione del periodo dei reati contestati dalla Cpi al generale libico, che il Guardasigilli avrebbe poi bollato in Parlamento come «vizio assoluto». Loro l’avevano superato indicando nella bozza le date esatte, ricavate dall’esame dei documenti inviati dall’Aia.
Segreto percepito
Ma quel pezzo di carta è rimasto sulla scrivania della capo di gabinetto, così come è rimasto muto il telefono e vuota la casella di posta elettronica del funzionario della Cpi che a più riprese aveva chiesto di interloquire con gli uffici ministeriali per fugare eventuali dubbi. Un appuntamento era stato fissato, ma saltò.
Le valutazioni non solo giuridiche evocate dalla dottoressa Lucchini (e prima ancora dall’allora capo del Dipartimento Affari di giustizia Luigi Birritteri, che parlò di «possibile valenza politica di non trascurabile entità» nella mail inviata domenica 19 gennaio anche a Bartolozzi, che si limitò a raccomandare «massimo riserbo e cautela») riguardavano i rischi di ritorsioni libiche segalati dal capo dell’Aise Giovanni Caravelli nelle riunioni segrete convocate da Palazzo Chigi, a cui partecipò anche la capo di gabinetto di Nordio. Che infatti davanti ai giudici ha ammesso: «Non era solo il problema dell’ordinanza, non era il tema spicciolo… qui c’era il problema del segreto di Stato».
Evidentemente lei aveva percepito che ci fosse, ma in realtà nessuno ha mai apposto quel vincolo. Né è stato opposto dall’Aise quando il Tribunale dei ministri ha acquisito la documentazione sul caso Almasri. Compresa la relazione redatta da Caravelli (classificata «segreta», allegata agli atti ma con le «modalità che ne tutelino la riservatezza» previste dalla legge) di cui il direttore dell’Aise ha ampiamente parlato nella sua deposizione. Illustrando i pericoli che avrebbero corso gli italiani in Libia come ritorsione per la cattura del generale e la sua eventuale consegna alla Corte dell’Aia.
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Argo 16
A giustificazione dell’utilizzo dell’aereo dei servizi segreti per riaccompagnare Almasri a Tripoli, Caravelli ha citato il precedente di Argo 16, l’aereo del Sid che nel settembre 1973 riportò in Libia alcuni terroristi palestinesi; l’apparecchio precipitò poco dopo in circostanze tuttora misteriose e al giudice istruttore di Venezia Carlo Mastelloni che indagava sull’incidente il governo oppose il segreto di Stato. Stavolta non è accaduto.
Come emerge dalla relazione del Tribunale dei ministri, il governo ha spiegato il rilascio del ricercato con versioni sempre differenti tra loro: dalla responsabilità esclusiva della Corte d’appello ai presunti errori del mandato d’arresto, fino alla necessità di valutare una «concorrente» richiesta di estradizione libica. Che però è arrivata quando Almasri era già stato rimpatriato, e i tecnici del ministero della Giustizia l’avevano bollata come «strumentale, totalmente sprovvista di provvedimenti e documenti». Giustificazioni tutte smontate, una per una, dall’indagine condotta dai giudici inquirenti.
L’ultima carta
Non a caso, dopo aver analizzato ogni atto del procedimento e forse intuito che quelle spiegazioni non reggevano ai riscontri cercati dai magistrati, la difesa dei tre membri dell’esecutivo indagati ha invocato come ultimo atto la carta dell’«interesse essenziale» dello Stato «a fronte di un pericolo grave e imminente». Quindi una questione di «sicurezza nazionale» fondata su motivi diversi da quelli addotti fino a quel momento, che forse non si potevano dichiarare pubblicamente perché legati alle relazioni con la Libia e le milizie di cui faceva parte Almasri, da salvaguardare anche a costo di non rispettare le leggi che regolano i rapporti tra l’Italia e la Corte penale internazionale.
Ma una volta valutato che anche i rischi paventati dal governo non avevano le «caratteristiche di indilazionabilità e cogenza tali da non lasciare altra alternativa che quella di violare la legge», ai giudici non restava che valutare i fatti ricostruiti e specificare i reati che hanno ritenuto di ipotizzare. Non spetta a loro, infatti, decidere se «l’inquisito abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di governo». Questa è la prerogativa riservata dalla legge costituzionale al Parlamento, che con una propria «valutazione insindacabile» può bloccare l’azione penale.
È ciò che aveva intuito la funzionaria del ministero già due giorni dopo l’arresto di Almasri, quando si rese conto che tutto il lavoro fin lì svolto si sarebbe rivelato inutile perché erano in corso «valutazioni non solo giuridiche».
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8 agosto 2025
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