Carlo “Charlie” Recalcati, icona del nostro basket, che cosa c’è negli 80 anni che compie oggi?
«La fortuna di aver fatto ciò che desideravo. E questo grazie alla famiglia e in particolare a mia moglie Giovanna, che ha sempre condiviso le mie scelte. Dopo il ritiro pensavo di continuare a fare l’assicuratore, poi ho deciso di allenare: l’ho fatto, per 40 anni, senza forzature, gustando squadre, situazioni e ruolo».
Se si volta indietro c’è qualcosa che non rifarebbe?
«Nulla. È un insegnamento di Aldo Allievi: ero tornato a Cantù e in una riunione mi lamentai di un americano. Allievi mi interruppe: “Quando si fa una scelta, convinti di farla, non si recrimina”».
Se si vive a lungo nel solco di un club, Cantù nel suo caso, è poi possibile affezionarsi alle altre squadre nelle quali si capita?
«Sì, soprattutto nell’era del professionismo. Per dire: sono ancora legato al Pavoni, il centro sportivo di Milano dove ho iniziato e che era il motore del basket cittadino, e soprattutto alla Nazionale, la cui maglia amo perfino più di quella di Cantù».
Può fare una “hit parade” delle altre sue squadre?
«Reggio Calabria ha un posto speciale nel cuore: per l’esperienza professionale durata 5 anni, ma anche per quella di vita. Poi Varese: è la società che mi ha fatto svoltare come allenatore».

La volevano i professionisti della Aba, confluita poi nella Nba. Rimpiange di aver rifiutato?
«Di recente ho scoperto le ragioni dell’interesse dei New York Nets, all’epoca si chiamavano così. La Aba aveva introdotto a titolo sperimentale il tiro da tre, che ancora non c’era nella Nba. Sapevano che segnavo molto dalla distanza: ecco l’arcano. Rifiutai perché avrei dovuto rinunciare alla Nazionale e se fossi stato scartato sarei dovuto rientrare in serie A come straniero. Posso dirlo? Sono nato troppo presto».
Marzorati-Recalcati: è giusto parlare non dei singoli ma della coppia?
«Be’, sì: io e il Pierlo ci siamo integrati. All’inizio giocavo play, ma quando spuntò lui dissi a Taurisano di dargli la regia e di usare me come guardia: avevo un bel tiro, anche se a volte — ora posso ammetterlo — esageravo».
Dan Peterson parlava dei “pretoni” di Cantù. Lei si sente un pretone?
«Pretoni l’ha coniato l’avvocato Porelli, riferendosi ad Aldo Allievi; Dan arriva dopo, ha copiato da Porelli, suo presidente a Bologna. Comunque io non mi sento pretone».
E’ mai stato attratto dalla natia Milano e in particolare dall’Olimpia?
«Sempre. Andai a lavorare a 15 anni alla RadioMarelli perché l’Olimpia mi scartò: Cesare Rubini non mi giudicò idoneo. Ma a fine carriera, giocavo a Parma, Peterson mi disse che mi avrebbe scelto se non fossero riusciti a ingaggiare Premier. Invece lo presero…».
Qual è stato il pregio del Recalcati c.t.?
«Non essere stato solo un selezionatore ma aver dato impulso al movimento. Ho parlato con tutti i predecessori che era possibile contattare: ho sentito i loro consigli, ho girato l’Italia per avere il polso della situazione, quindi ho fatto le mie scelte».
Italia eliminata all’Europeo: lei rimane l’ultimo c.t. ad aver vinto medaglie.
(sospiro) «Questa cosa mi seguirà ancora per qualche anno…».
Per qualche anno o per qualche decennio?
«Non facciamo i pessimisti: stanno arrivando dei talenti, l’oro europeo della Under 20 è un segnale forte, anche se nel basket sono fiorite nuove realtà ed è sempre più difficile emergere».
Ha un debole per Pozzecco. Ma da giocatore, a Varese, le tirava la giacca…
«Io e Poz siamo agli antipodi, a ciascuno mancano cose che l’altro ha. Sarei curioso di vedere un mix tra me e lui… Comunque, perché non riconoscergli di essere sempre sé stesso?».
Lo amano e lo odiano…
«Ma a volte chi lo ama si mette a criticarlo. E viceversa…».
Ha fatto bene a chiudere con la Nazionale?
«Avrà fatto le sue valutazioni. Io, però, mi sarei preso un giorno di riflessione».
Perché Recalcati non ha voluto candidarsi alla presidenza federale?
«Perché servono qualità politiche che non ho. E poi perché avrei chiesto piena autonomia decisionale. Ne parlai a Gianni Petrucci, all’epoca a capo del Coni: mi disse che avrebbe dovuto cambiare lo statuto di tutte le federazioni. Non poteva farlo».
Con Bianchini e Messina è l’unico ad aver vinto il titolo in tre città differenti. Il sapore dello scudetto è uguale da giocatore e da allenatore?
«Da giocatore ero egoista e pensavo di essere io l’artefice delle vittorie. Da allenatore ho imparato che tutto nasce dal gruppo».
Un’idea per il basket italiano del futuro?
«Creiamo palestre e campi per l’attività di base. Quelli che ci sono costano troppo e danno poco tempo per gli allenamenti. Gli oratori sono sempre di meno, costruiamo oratori “laici”: quanti capannoni dismessi ci sono solo a Milano?».
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11 settembre 2025
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