
«Non ne farei una questione di genere, ma di voglia di andare oltre la normalità. E queste meravigliose ragazze, di voglia di andare oltre la normalità ne avevano tanta».
Però è un fatto che l’oro olimpico nel volley sia arrivato dalle donne. E che la prima medaglia europea nel basket da 22 anni a questa parte sia arrivata dalle donne. Una casualità?
«Guardi, lo chiede a una persona che alle casualità non crede».
Andrea Capobianco, l’arruffato e scamiciato condottiero di una Nazionale arrivata là dove nessuno immaginava, si gode il riposo nella sua Venafro. E un bronzo impensabile.
«Impensabile? Forse per chi ci dava perdenti ogni volta, con Belgio, Francia, Turchia, Lituania, Slovenia… Avremmo dovuto perderle tutte».
E invece…
«Invece sono molto contento di aver allenato un gruppo eccezionale».
Il segreto del bronzo?
«Ce ne sono diversi, anche se non sono poi così segreti».
Per esempio?
«La consapevolezza».
Si spieghi.
«Eravamo consapevoli di ciò che sapevamo fare bene e di ciò che sapevamo fare un po’ meno bene. E su questo abbiamo lavorato. Non è lo schema che ti fa vincere la partita, ma la qualità. E quella si ottiene mettendo insieme gli aspetti tecnici, fisici e mentali».
Ed è sufficiente?
«Bisogna credere nel progetto tecnico-tattico. Il percorso è cominciato il giorno del raduno, il 17 maggio. Alle ragazze ho detto: per fare qualcosa di buono bisogna andare al di sopra della normalità, se saremo solo normali non vinceremo nulla».
Ha parlato del gruppo.
«Sì, eccezionale».
Motivi l’aggettivo.
«Ogni persona, e non solo le giocatrici, parlo del presidente, dello staff, dei medici, di tutti insomma, è stata capace di rinunciare a qualcosa per il bene della squadra».
Ma questa medaglia è un punto d’arrivo o di partenza?
«Un punto di partenza, chiaramente: ora possiamo credere che alla fine anche l’Italia può fare qualcosa di buono».
Si riferisce solo al basket?
«Il mio campo è quello».
Che cosa mancava a queste ragazze per vincere?
«Banalmente, acquisire equilibrio ai livelli più alti».
Tradotto?
«Ci sono giocatrici, e anche giocatori, che hanno più minutaggio in Nazionale che nel proprio club. È un dato che deve fare riflettere».
A livello giovanile le medaglie arrivano. Poi però…
«Poi però ci sono difficoltà tra i 17 e i 21 anni. È come la specializzazione in medicina, solo che qui non provi a fare le cose. C’è una fascia d’età dove giochi con poca o senza responsabilità. Quando a Teramo ho lanciato Polonara, per il quale faccio un gran tifo, Achille era un ragazzino ma giocava 22 minuti a partita. I giovani devono sperimentare quello che stanno studiando. E vuol sapere un altro segreto delle mie azzurre?».
Ci dica.
«Tutte erano responsabilizzate, tutte coinvolte per giocare al massimo livello, secondo le possibilità di ognuna».
Com’è allenare le donne?
«Non è diverso da allenare degli uomini. In entrambi i casi devo rispettare il mio ruolo, che è quello di allenare. L’etimologia di allenare è dar lena, dare forza. Io devo dare forza ai giocatori, o alle giocatrici, che alleno, farli crescere, migliorarsi. Una ragazza mi ha detto: “tu ci alleni come delle atlete”. Mi è sembrato un complimento bellissimo».
Parliamo dell’unica sconfitta, la semifinale. Rimpianti?
«Rimpianti no. Dispiacere. Ma non per l’ultimo tiro: per il primo e il secondo quarto, dove abbiamo concesso 12 punti al Belgio che non dovevamo concedere. L’ultimo tiro può andar bene o andar male».
Ne è proprio sicuro?
«Ho una convinzione: si deve sempre giocare ogni azione come se fosse la più importante della vita. Se non fosse stato così, nel supplementare con la Turchia avremmo perso. E invece ci siamo detti: il passato non si può cambiare, pensiamo solo alle prossime azioni. E anche contro la Francia abbiamo dimenticato il Belgio. E il bronzo è arrivato così».
1 luglio 2025
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