Oltre il 70% della moda di alta qualità è prodotta in Italia. Da qualche mese, questo tessuto industriale è logorato dalle amministrazioni giudiziarie in serie disposte dalla Procura di Milano a carico di alcuni dei marchi più noti al mondo: Armani, Valentino, Dior e infine, almeno per ora, Loro Piana. Le inchieste hanno scoperchiato fenomeni di caporalato nella filiera del lusso – lavoro nero, paghe da fame, condizioni degradanti – e i pm hanno rimproverato ai brand di non aver approntato controlli adeguati a impedirli. «Sta passando una pericolosa equazione fra lusso e sfruttamento dei lavoratori», dice Carlo Capasa, presidente della Camera della Moda, associazione che rappresenta le principali case di moda. «Attenzione a cavalcarla perché si rischia di danneggiare la seconda industria italiana, a tutto vantaggio di Paesi concorrenti e del fast-fashion proveniente dalla Cina, dove davvero lo sfruttamento dei lavoratori è strutturale».
Dalle carte emergono fatti gravi: c’è un problema nella moda italiana?
«Non vogliamo sottovalutare il problema: anche un lavoratore sfruttato è troppo. Bisogna però riportare il fenomeno alle reali dimensioni. La filiera italiana della moda si compone di 60 mila imprese con 600 mila addetti. Secondo l’Istat, gli irregolari sono 30 mila: assumendo che circa la metà di loro lavori nella catena dell’alto di gamma, stiamo parlando del 2,5% della forza-lavoro totale, quota di molto inferiore ad altri settori e ad altri Paesi».
Sono mancati i controlli su questa parte della filiera?
«Non è così facile. La filiera è molto frammentata, con aziende con un organico medio di 10 addetti. Ogni marchio ha quindi 2-3000 fornitori diretti, ciascuno dei quali può avere a sua volta due-tre subfornitori, non sempre dichiarati. È qui che si concentra il caporalato, ma per un brand è impossibile risalire controllare ogni anello di una catena produttiva così lunga e dispersa».
Quindi è stato sbagliato commissariarli?
«I marchi sono pronti a collaborare con le autorità per estirpare il fenomeno e qualsiasi aiuto è benvenuto. Certo, sarebbe preferibile che si tentasse di contrastare il caporalato con iniziative concertate con il brand prima di arrivare al commissariamento, con tutte le sue conseguenze negative in termini di pubblicità e operatività aziendale».
Come pensate di debellare il caporalato?
«Stiamo lavorando con il Tavolo della moda a una proposta di legge per affidare il controllo della filiera a un ente terzo che avrà il compito di redigere una sorta di albo dei fornitori certificati e controllare che gli iscritti al registro rispettino i requisiti di legalità ogni sei mesi. I marchi potranno attingere per le loro produzioni a questo bacino di fornitura».
Quando sarà operativo questo registro?
«Il ministero delle Imprese e del Made in Italy è pronto a farsi promotore dell’iniziativa legislativa in Parlamento e speriamo che si arrivi a un’approvazione in tempi rapidi: i marchi sono i primi danneggiati dal caporalato e dallo sfruttamento dei lavoratori».
Secondo la Procura, questi fenomeni consentono alle case di moda di massimizzare i profitti: giacche prodotte al costo di un centinaio di euro vengono poi vendute ai consumatori a migliaia. Non è così?
«È una semplificazione fuorviante. Quei costi di cui si legge riguardano solo una fase della lavorazione dei capi. Bisogna aggiungere le materie prime, il design, la ricerca e sviluppo, la distribuzione, il marketing. Il processo creativo del lusso è complesso e va avanti per tentativi: tanti esperimenti si buttano e, quando poi si arriva a conclusione, il prodotto definitivo detta la moda che tanti brand di fascia media e bassa imiteranno nei due-tre anni successivi. Potrà stupire, ma alla fine i grandi marchi non fanno così tanti profitti».
Davvero? Prima della crisi attuale, i dividendi sono stati generosi.
«Prese nel loro insieme, le prime 50 aziende di moda al mondo non superano il 10% di margine di profitto. Poi, certo, all’interno di questo gruppo ci sono gruppi di grandi dimensioni che riescono ad abbattere i costi grazie alle economie di scala e marchi esclusivi che possono permettersi prezzi più elevati. Attenzione, però, a far passare un messaggio pauperista perché ci facciamo del male da soli».
La frenata delle vendite del lusso non è però il sintomo di una crescente diseguaglianza all’interno della società?
«In Italia c’è un problema di salari, è innegabile, ed è dovuto anzitutto al carico fiscale eccessivo sui dipendenti. La stagnazione degli stipendi non deve però diventare il pretesto per sostenere che è il lusso è immorale, come asserisce certa politica. Al contrario, deve diventare una spinta a ridurre la diseguaglianza per alimentare i consumi interni. Altrimenti, rischiamo di fare la fine della Cina».
Che intende?
«La Cina rappresentava il 40% dei consumi di moda mondiali. Poi, per compattare la società dinanzi alla crisi ed evitare l’esasperazione delle differenze fra le classi sociali, Xi Jinping ha dichiarato che il lusso è immorale. Risultato: oggi la quota della Cina in questo mercato si è dimezzata al 20%, a tutto vantaggio dei marchi cinesi di fast-fashion. Davvero vogliamo cavalcare questa tendenza e danneggiare l’immagine della nostra filiera dell’alta qualità facendo un favore a concorrenti a basso costo e alto sfruttamento? In gioco, lo ricordo, ci sono 100 miliardi di fatturato e 600 mila posti di lavoro: bisogna fare squadra per proteggerli».
3 agosto 2025
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