Dazi, inflazione, timori di recessione, andamento dei tassi e dei mercati. Insomma, il rischio di una tempesta perfetta. Come ha detto Lucio Anneo Seneca «è durante la tempesta che conosciamo il navigatore». Un po’ quello che sta accadendo in America. Tra Washington e le grandi banche è in corso un braccio di ferro.
Gli scontri sulla politica monetaria della Fed fanno parte della storia americana, ma raramente i big banker hanno fatto mancare il loro appoggio alla pubblica amministrazione. Nelle prime settimane dopo l’arrivo ufficiale alla Casa Bianca, per esempio, tutti si sono allineati al trumpismo abbandonando sia la Net Zero Banking Alliance (Nzba) che rinunciando ad alcuni principi «Dei» che riguardano diversity, equity ed inclusion. Ma nella vita c’è sempre una prima volta.
I grandi banchieri faticano a capire quale sia il reale punto d’arrivo della politica dei dazi, sapendo che l’economia americana sta rallentando e la recessione è dietro l’angolo. La vicenda è poi complicata dal fatto che Washington non dà indicazioni precise. La battaglia di Donald Trump contro lo squilibrio commerciale è uno dei pilastri del suo secondo mandato. È evidente che l’idea è smettere di tassare gli americani per tassare il resto del mondo. Ma è difficile capire fino a dove voglia e possa spingersi, specialmente dopo «la fase di riflessione».
Gli interrogativi sono tanti. Quale sarà il nuovo modello? E quali le conseguenze per l’economia Usa? Come sarà affrontato il nodo del debito? Il dollaro resterà ancora la valuta di riferimento? Impossibile a dirsi visto che poco trapela dalle stanze dell’amministrazione. La mancanza di influenza diretta delle grandi banche è in netto contrasto con le crisi passate come il crollo finanziario del 2008 e la pandemia, quando Washington collaborò a stretto contatto con il mondo del credito per calmare le acque. Anche allo scoppio del Covid, Trump convocò i ceo delle banche a una riunione da remoto per discutere le misure che si stavano adottando. Adesso regna il silenzio.
LEGGI ANCHE
Le preoccupazioni
I grandi banchieri sono dunque preoccupati per l’impatto sulle loro attività. Un incontro tra i ceo delle banche e il Segretario al Commercio, Howard Lutnick, ha lasciato diversi partecipanti frustrati dopo che quest’ultimo ha chiesto di aderire alla politica dei dazi senza dare spiegazioni.
Poi è arrivato il momentaneo stop. I retroscena raccontano che a spingere il presidente a fare un passo indietro sarebbe stato Scott Bessent. Il segretario al Tesoro ha evidenziato il pericoloso andamento dei Treasury Bill (T-Bill) e le preoccupazioni degli operatori. Bessent ha, comunque, respinto questa voce sostenendo che il processo è stato concepito sin dall’inizio da Trump: «È l’arte di fare affari», ha detto il ministro. Una versione che non ha soddisfatto i grandi banker.
È ovvio quindi che si sia creata grande attesa sulle trimestrali anche se i conti non risentono ancora dei dazi. Il focus degli analisti resta concentrato sulla redditività che grazie al trading è solida. Ma stavolta al centro dell’attenzione c’è anche il futuro dell’America.
I dubbi sono molti. Il credito alle imprese si sta già riducendo? I tagli nell’amministrazione e i licenziamenti delle aziende hanno già avuto ripercussioni sul business delle carte di debito? Le banche saranno chiamate a comprare Treasury? Aumenteranno gli accantonamenti?
Gli occhi dei bankers sono poi puntati sulla Federal Reserve. La situazione negli Usa si presenta complessa. I dazi, pensati per proteggere l’industria, possono influenzare sia l’inflazione che la crescita. Nel caso peggiore possono produrre una stagflazione cioè aumento dei prezzi e un calo della crescita. La Fed, guidata da Jerome Powell, è però più preoccupata dell’inflazione. Motivo per cui ritarderà il taglio dei tassi. Powell, al di là degli attacchi di Trump, ha tre punti fermi: la politica tariffaria è più dura di quella prevista; l’incertezza fa crescere sia il rischio recessione che quello dell’inflazione; quindi è difficile prevedere quale direzione prenderà la politica monetaria.
La voce di Jamie Dimon
Al di là della Fed, la bussola di Wall Street è, come sempre, puntata su Jamie Dimon, ceo di Jp Morgan. Nella sua lettera ai soci il banchiere ha espresso vari timori. «L’economia sta affrontando una notevole turbolenza — ha scritto — . È probabile che assisteremo a esiti inflazionistici. Resta da vedere se i dazi causeranno una recessione, ma di certo rallenteranno la crescita». Secondo il re dei banchieri le tariffe sollevano anche interrogativi sulla politica monetaria: «Sebbene i tassi siano scesi a causa dell’indebolimento del dollaro, la prospettiva di una crescita più lenta potrebbe farli risalire». Nel primo trimestre, comunque, la banca ha riportato profitti per 14,6 miliardi, in rialzo del 9 per cento. Dimon ha ripetuto di vedere nubi all’orizzonte: «L’economia — ha detto il banchiere — sta affrontando una fase con potenziali effetti positivi grazie alla riforma fiscale e alla deregolamentazione, ma anche con effetti negativi provocati dalle guerre commerciali, un’inflazione persistente ed elevati deficit fiscali».
I conti del primo trimestre
Buone prospettive sono venute da Morgan Stanley che ha riportato un fatturato di 17,7 miliardi e un utile di 4,3 miliardi.
Profitti e ricavi in crescita anche per Goldman Sachs con l’area Global banking markets che ha generato ricavi per 10,7 miliardi.
Bank of America ha visto crescere l’utile grazie soprattutto all’andamento delle attività di trading. Nel trimestre i ricavi sono passati da 25,8 a 27,4 miliardi, in aumento del 6 per cento. «Anche se in futuro dovremo affrontare un’economia in cambiamento — ha detto il ceo Brian Moynihan — riteniamo che gli accantonamenti effettuati e le attività diversificate rimarranno un punto di forza».
Nel commentare quanto sta accadendo negli Usa, Charlie Scharf, ceo di Wells Fargo, è stato più fiducioso. «La banca appoggia la volontà dell’amministrazione nel porre barriere per il commercio, anche se ci sono dei rischi. Queste politiche saranno all’origine di volatilità».
Sostanzialmente stabili le altre due big. Wells Fargo, la quarta più grande banca statunitense, ha chiuso il trimestre con un utile in crescita pari a 4,8 miliardi; Citigroup ha realizzato un profitto di 4,1 miliardi mentre i ricavi si sono avvicinati a 22 miliardi.
Insomma, a malavoglia i banchieri di Wall Street si sono accomodati sull’ottovolante di Trump e stanno stringendo le cinture di sicurezza consapevoli che l’estroverso presidente può riservare qualsiasi sorpresa.
23 aprile 2025
© RIPRODUZIONE RISERVATA