Questo articolo è tratto dalla newsletter settimanale «Whatever It Takes» di Federico Fubini. Per iscriversi questo è il link.
Nikolay «Nik» Storonsky (40 anni, sopra a destra) e Vlad Yatsenko (41, a sinistra) rappresentano l’unico caso oggi al mondo di un russo e un ucraino di origine che collaborano in mondo pacifico e proficuo. Entrambi sono schierati nettamente contro l’aggressione di Vladimir Putin. Eppure Storonsky è cresciuto a Dolgoprudny, una cittadina a venti chilometri da Mosca, figlio di un dirigente del settore ricerca di Gazprom (oggi ha scelto di avere solo nazionalità britannica e francese). All’età di sei anni Storonsky ha iniziato a leggere libri di economia e di business, in seguito si è laureato in Fisica e poi in Economia applicata a Mosca, ma è stato anche un campione locale di nuoto e di boxe. Yatsenko invece è nato in Germania Est da genitori ucraini, all’epoca sovietici, quindi ha studiato tecnologia in una delle città oggi più martoriate dai russi: Mykolaiv. I due si sono conosciuti a Londra, dove lavoravano nelle banche d’affari. Insieme hanno fondato nel 2015 la neo-banca che ha una seria chance di diventare nei prossimi dieci anni il primo istituto finanziario d’Europa per numero di clienti. Revolut, la loro creatura, ha già il tasso di crescita e la redditività più alta d’Europa nel settore. Tutta la banca con i suoi servizi vivono solo in una app, facilissima da usare e con tutti i possibili servizi.
La banca degli under 30
Per prezzi e capacità innovativa, Revolut è per le banche ciò che Ryanair è stato per le compagnie di bandiera o il campione delle auto elettriche cinese Byd è per i costruttori tedeschi. Una quota prevalente di under 30 in tutta Europa apre i suoi conti a Revolut, non agli sportelli tradizionali. In Irlanda i suoi clienti sono il 68% della popolazione di tutte le età e in gran parte dell’Europa centro-orientale almeno il 20% (ma fra il 2% e il 4% in Italia e Germania). Di recente ha annunciato un investimento da un miliardo euro per aprire una nuova base a Parigi, da cui accelerare l’espansione in tutta l’area euro. Cosa c’entra tutto questo con noi? Nulla. E questo è il problema.
Le disfide finanziarie
L’Italia continua a essere percorsa da regolamenti di conti e guerre di potere di sapore arcaico attorno alle banche – con la politica dentro fino al collo – mentre il panorama attorno a noi si trasforma in modo irriconoscibile; invece il Paese avrebbe bisogno di enormi investimenti privati per cercare di non restare ancora più indietro nelle trasformazioni in atto: cloud, semiconduttori, nuovi sistemi di energia, difesa. L’elenco è lungo e noto.
In Italia oggi le banche funzionano soprattutto per i banchieri, molto meno per il resto del sistema. Cosa voglio dire? Non tanto che nel 2024 gli istituti di credito hanno registrato utili record e un’estrema profittabilità: ben 31 miliardi di euro di margini – più 10% in un anno – su 88,6 miliardi di ricavi, in un Paese tornato intanto a una crescita quasi zero. In queste fortune delle banche non ci sarebbe niente di male. Il denaro non è lo sterco del diavolo; può essere il seme di nuova crescita, innovazione, fiducia. Può esserlo anche se l’ultimo rapporto Morningstar (2022) assegna all’Italia, assieme a Taiwan, al dubbio primato di Paese fra le prime trenta economie del mondo nel quale la gestione del risparmio costa di più ai risparmiatori stessi. Ma non rende di più. Nelle marine del Paese sono attraccati gli yacht dei banchieri; meno chiaro dove siano quelli dei loro clienti.
Maxi-aumento di capitale
Ma, appunto, non è tanto questo a sorprendermi. Più curioso è che il mondo produttivo non si sia accorto di tutta questa prosperità del sistema finanziario. Cerco di essere più preciso. Gli istituti bancari detengono titoli di Stato italiani per circa 380 miliardi di euro, circa un decimo dei loro attivi (in aumento di una cinquantina di miliardi solo nell’ultimo anno). Ma quel decimo degli attivi è speciale e conta più che proporzionalmente. Sui loro investimenti in buoni del Tesoro le banche non devono operare infatti alcun accantonamento a riserva, in quanto quei titoli sono considerati ufficialmente privi di rischio.
Quindi ogni aumento in valore di quella carta sovrana dell’Italia è di fatto un aumento chiaro e netto della disponibilità di capitale: gli istituti hanno più patrimonio, quindi potrebbero prestare di più.
E in effetti negli ultimi anni di patrimonio ne hanno avuto sempre di più. Anche grazie, va detto, alla politica di bilancio prudente del governo che ha generato fiducia nel debito del Paese. Grazie, più precisamente, all’aumento della pressione fiscale di circa 25 miliardi l’anno, che grava in gran parte sul ceto medio del lavoro dipendente colpito in pieno dagli aumenti automatici delle tasse determinati dall’inflazione. Così il deficit pubblico è sceso e i rendimenti dei Btp (Buoni del Tesoro poliennali) a dieci anni sono anch’essi scesi: dal 4,79% dell’ottobre 2022 quando Giorgia Meloni presta giuramento, al 4,9% dell’ottobre 2023, 3,5% oggi. I rendimenti degli omologhi titoli a due anni sono scesi anche di più: dal 4,3% dell’ottobre 2022 al 2% di oggi.
Ora, poiché i prezzi di quei titoli si muovono in direzione opposta ai rendimenti, ciò significa che il valore di quegli stessi titoli è salito di molto e le banche hanno goduto – senza far nulla – di una ricapitalizzazione da molte decine di miliardi grazie ai loro investimenti nel debito pubblico di Roma.
Uno dice: ma allora hanno prestato di più, giusto? Sbagliato. Hanno prestato di meno. Dal novembre del 2022 ad aprile scorso lo stock del credito alle imprese scende in modo continuo e costante di 63 miliardi, circa del 10% in proporzione. Quello per le “famiglie produttrici” (per lo più artigiani e piccolo commercio) cala di altri tredici miliardi, circa di un 20% in proporzione. Quello alle famiglie “consumatrici” (mutui e credito al consumo) ristagna. I frutti del rafforzamento patrimoniale delle banche grazie al calo dello spread vanno quasi tutti agli azionisti e ai top manager delle banche stesse, neppure ai dipendenti (i cui salari sono bassi e stagnanti). La dinamica degli investimenti resta debole e inadeguata all’accelerazione tecnologica in corso fuori dall’Italia.
Nel frattempo in questo mondo ricco e chiuso scoppiano i regolamenti di conti, le battaglie di retroguardia e le guerre di ieri. Il governo mette di fatto un veto, di dubbia legalità e mai realmente motivato, alla scalata di Unicredit a Banco Bpm (che parti della maggioranza considerano una banca “amica”). La privatizzazione nel 2024 di una quota di Monte dei Paschi, salvata con i soldi dei contribuenti solo pochi anni fa, finisce al centro di un’inchiesta della Commissione europea per le sue apparenti stranezze. Esprimono interesse a comprare una quota alcuni grandi investitori internazionali come il fondo sovrano norvegese o BlackRock. Il governo ha affidato la regia dell’operazione di cessione in esclusiva alla piccola banca Akros (di Banco Bpm), invece che ai grandi operatori globali abituali quali Jp Morgan o Jefferies; e Akros spiega agli aspiranti compratori esteri che per loro non c’è niente da fare. Non possono competere – dice – ormai i giochi sono fatti; e distribuisce le quote alla sua stessa casa madre Banco Bpm, a Francesco Gaetano Caltagirone e alla Delfin dei Del Vecchio. Per l’appunto Caltagirone e Delfin saranno gli alleati con i quali lo stesso governo sta dando ora la scalata, tramite la sua quota residua quale primo azionista di Montepaschi, a Mediobanca e con essa al controllo delle Generali. Così la politica romana prenderebbe possesso di una parte importante del cuore stesso della finanza privata del Paese, ancora una volta senza spiegare perché e con quale disegno. Per non dire dello stesso Caltagirone: il navigato ex immobiliarista romano ha fortemente sostenuto una norma, passata per decreto dall’attuale governo, che rafforza i suoi poteri di condizionamento sugli organi di indirizzo delle Generali – di cui è antico azionista – ma riduce la voce in capitolo degli azionisti esteri e comunque di quelli che hanno investito da meno tempo di lui.
Attrarre capitali esteri?
Non sappiamo se Bruxelles concluderà che l’asta di Monte dei Paschi è stata falsata. Tutto può essere. Ma anche solo l’apparenza e il sospetto che lo sia stata creano un danno serio all’attrattività del Paese, quale destinazione di investimenti dal resto del mondo. Il Financial Times scrive che «per i non iniziati» – cioè per chi è fuori dai soliti giri di potere – fare accordi in Italia è «sempre più complesso». Lo spettacolo certo tiene alla larga il denaro che oggi sta cercando nuovi porti sicuri, dato lo stress in America sotto la caotica guida di Donald Trump. Questo sarebbe il momento di mostrarsi aperti, prevedibili nell’applicare regole stabili e uguali per tutti, trasparenti. Invece facciamo il contrario.
Così Revolut sceglie Parigi per la sua base europea, non Milano o Roma. Così Ing, la banca-assicurazione olandese, scende in Italia per un interesse nella Popolare di Sondrio, poi fiuta l’aria e scappa, portando altrove i suoi miliardi. Apollo, il grande fondo di private equity americano, si impegna a investire cento miliardi di dollari in Germania nei prossimi anni; ma dell’Italia non parla. Blackstone, il fondo di private equity, promette investimenti per cinquecento miliardi di dollari in Europa nei prossimi anni. Ma quanti di questi arriveranno da questa parte delle Alpi, dove regna questa opacità delle scelte dentro e attorno al governo?
Non voglio sembrare ancora più ingenuo di quello che sono. I grandi fondi privati americani di credito o investimento in capitale hanno i loro problemi. Il loro legame siamese con le assicurazioni li rende fragili alla prossima recessione. Ma rappresentano buona parte del futuro del finanziamento: già oggi il 20% dei prestiti in Italia viene da queste forme di credito privato – secondo stime del settore – contro il 50-70% di altri grandi Paesi europei. Questi fondi vogliono portare qui centinaia di miliardi di investimenti in innovazione, di cui avremmo un enorme bisogno. E in Europa possono essere regolati e vigilati molto meglio che negli Stati Uniti. Purché l’Italia, con le sue lotte intestine di retroguardia, non finisca per diventare meno interessante all’estero mentre Germania, Francia, Spagna e Polonia ingranano un’altra marcia.
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1 luglio 2025
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