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Armi made in Usa per l’Ucraina, pressing sull’Italia per l’acquisto

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DAL NOSTRO INVIATO
BRUXELLES – L’ha chiesto Zelensky. L’ha chiesto Trump. L’ha chiesto il segretario generale della Nato, Mark Rutte. A Giorgia Meloni negli ultimi giorni l’hanno chiesto in tanti e ai più alti livelli, tutti direttamente, compreso l’ambasciatore americano in Italia, Tilman J. Fertitta, che è ultimo solo in ordine di citazione, ma di cui si narra che sia fra i pochi in grado di contraddire il presidente americano durante un conversazione. «Ha ragione lei e tu hai torto», ha detto al suo presidente nel corso dell’ultimo incontro avuto da Giorgia Meloni con l’inquilino della Casa Bianca. Stiamo parlando di armi americane e del programma Purl. Ieri ha annunciato la sua adesione anche la Spagna. E la pressione sulla nostra premier è aumentata ancora di più, perché se militari e diplomatici hanno già fatto conti e progetti, se le indiscrezioni dicono che l’Italia dovrebbe partecipare al sesto pacchetto di acquisti insieme ad almeno altre 6 o 7 Stati, mettendo sul piatto almeno 120 milioni di dollari, a Palazzo Chigi si fa fatica a trovare una conferma, la riflessione è ancora in corso.

Il programma Purl l’ha voluto Trump ed è molto semplice: si tratta di pacchetti di armi made in Usa, che formalmente vengono acquistati dalla Nato e girati a Kiev. Ogni pacchetto vale circa 500 milioni di dollari e il contenuto è secretato, definito direttamente fra ucraini e Pentagono. Pagano però gli europei. Canada, Germania, Paesi Bassi, Svezia, in tutto sono 17 che hanno già aderito e l’Italia potrebbe farlo presto, in modo formale, diventando la capofila di un gruppo che comprende la Spagna e il Belgio, oltre a Portogallo e altri Stati più piccoli. Ci sono Paesi, come la Svezia e altri scandinavi, che stanno già per fare il bis, firmando un nuovo contratto nel quartier generale della Nato a Bruxelles.

Ma a margine del Consiglio europeo l’incontro fra il leader ucraino e Meloni si è incentrato anche su un’altra richiesta pressante di Kiev, l’adesione convinta di Roma (Meloni in Parlamento ha offerto molti dubbi e avanzato diverse riserve) allo sblocco dei fondi russi congelati in Belgio, 185 miliardi cui potrebbero aggiungersi altri 20 o 25 che si trovano in istituti francesi e britannici. Anche su questo punto però la posizione italiana ha parecchie sfumature, se non altro finanziarie, visto che l’operazione che ha discusso il Consiglio europeo deve essere accompagnata da garanzie finanziarie e formali degli Stati membri, che nel caso italiano possono superare anche 20 miliardi di euro.

L’incertezza del governo sui due dossier ha dunque matrici diverse, e non è da sottovalutare anche la componente politica legata alla posizione della Lega e quella personale dell’indirizzo del governo, che misura anche la ricaduta in termini di consenso rispetto all’elettorato.
L’incontro fra Zelensky e la premier è poi servito a discutere anche dell’aiuto che l’Italia e le sue aziende possono dare agli ucraini per proteggere le infrastrutture energetiche. Il leader ucraino ha messo nero su bianco che Kiev e Roma si sono concentrati «sui progetti di difesa comune nell’ambito dello strumento Safe» (15 miliardi di fondi europei che arriveranno a Roma per programmi di rafforzamento delle capacità militari) e su come «difendere il nostro settore energetico e renderlo più resiliente e l’Italia dispone delle competenze e delle attrezzature necessarie a tal fine».

Meloni ha anche avuto un ampio confronto con Ursula von der Leyen in tema di prezzi dell’energia e di transizione ambientale: Roma chiede una revisione delle norme attuali nel medio periodo, chiede provvedimenti urgenti per il settore automobilistico, un intervento più deciso della Commissione sui meccanismi della formazione dei prezzi dell’energia in ambito Ue, e vuole che ai fini delle emissioni vengano conteggiati anche i crediti internazionali ottenuti da nostra aziende in Paesi terzi, per esempio del Mediterraneo.

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23 ottobre 2025 ( modifica il 23 ottobre 2025 | 22:54)

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