
Bentrovati,
Vicente Fernandes Vilhalva era il portavoce del suo popolo, i Guarani Kaiowá. Lo hanno ucciso a bruciapelo, con un colpo di pistola in fronte, il 16 novembre, proprio mentre in Brasile, alla COP30 di Belém, si parlava di salvare la foresta e i territori degli indigeni. Nessuno, però, ha protetto il 36enne Vicente. Nella notte, almeno venti sicari hanno attaccato indisturbati la comunità di Pyelito Kue, che aveva recentemente rioccupato una parte della sua terra ancestrale, nel Sud del Paese. Altre quattro persone sono rimaste ferite.
Uno dei leader di Pyelito Kue ha raccontato a Repórter Brasil, in forma anonima: «Eravamo circondati. I sicari non sono venuti per parlare, hanno solo iniziato a sparare. Noi non abbiamo armi, non abbiamo possibilità di difenderci. Ci siamo ritirati e ci siamo recati al villaggio, ma hanno continuato a sparare… Hanno bruciato tutto nell’area che stiamo rivendicando: le nostre capanne, le pentole, le sedie…».
Survival International ricorda che la comunità Guarani Kaiowá di Pyelito Kue e altre comunità guarani kaiowá della regione furono sfrattate con violenza dalle loro terre, nello stato brasiliano di Mato Grosso do Sul, decenni fa. «Da allora, quasi tutta la loro terra è stata occupata da agroindustrie e allevamenti di bestiame. Le famiglie guarani di Pyelito Kue sono state costrette a vivere per oltre dieci anni in un’area affollata di 97 ettari, con poco spazio per coltivare orti», si legge nel comunicato della Ong. «A causa della fame, ad inizio novembre, hanno deciso di rivendicare un’altra parte della loro terra nel Territorio Indigeno Iguatemipeguá I». È in questo lembo di terra, occupato da una Fazenda che alleva bestiame, che Vicente è stato ucciso.
«La nostra lotta è per la vita, per la terra e per Tekoha Guasu (il nostro intero territorio ancestrale)… Non accettiamo più di essere trattati come invasori nella nostra stessa terra», ha affermato in una dichiarazione l’organizzazione dei Guarani Kaiowá, Aty Guasu. FUNAI, l’Agenzia brasiliana agli Affari Indigeni, aveva delimitato l’area nel 2013: uno dei primi passi verso la demarcazione. Tuttavia, il processo è in stallo da allora, in violazione della legge brasiliana e internazionale, sottolinea Survival International.

Ero alla Conferenza sul clima di Belém, durante la prima settimana di negoziati, e durante il Vertice dei Leader ho ascoltato decine di capi di Stato e di governo – e perfino il principe William di Inghilterra – sostenere che i popoli indigeni sono in prima linea nella difesa dell’Amazzonia e della natura, un baluardo contro i cambiamenti climatici, e che il mondo ha il dovere di proteggere il loro territorio e il loro stile di vita. Secondo un recente studio, l’ampliamento dell’area totale considerata territorio indigeno potrebbe impedire fino al 20% di ulteriore deforestazione e ridurre le emissioni di CO2 del 26% entro il 2030. Dal 2019, la Piattaforma delle Nazioni Unite per le comunità locali e i popoli indigeni ha esteso il ruolo delle popolazioni indigene nei negoziati ufficiali.
Al vertice di quest’anno, oltre 900 delegati indigeni – numero record – partecipano ai dibattiti ufficiali. E proprio nei giorni della COP30, il governo del Brasile ha demarcato 10 nuovi territori indigeni. Evidentemente, non basta.
L’hanno chiamata la COP delle foreste e perfino la COP degli indigeni, che con una colorata e rumorosa flottiglia di oltre 200 imbarcazioni hanno navigato lungo il Rio delle Amazzoni fino a Belém. Ma, nonostante tutto, la loro voce ancora non è ascoltata come dovrebbe.
Il 14 novembre, gruppi indigeni del popolo Munduruku hanno bloccato l’ingresso principale della Conferenza sul clima (foto sopra), chiedendo un incontro con il presidente brasiliano Lula e richiamando l’attenzione sul profondo divario tra le persone più colpite dalla distruzione dell’Amazzonia e l’élite politica al suo interno. Non sono stati ricevuti da Lula, sono però riusciti a consegnare al governo brasiliano un documento con una serie di richieste, tra cui la revoca di un decreto che dà il via ad un progetto di mega-idrovia, ovvero un piano di gestione delle vie navigabili che comprende i fiumi Tapajós, Madeira e Tocantins. Le comunità affermano che il trasporto di soia e fertilizzanti è aumentato vertiginosamente, riducendo la pesca, contaminando le acque e limitando gli spostamenti delle comunità rivierasche. Hanno anche chiesto la cancellazione della ferrovia Ferrogrão, un progetto tra il Mato Grosso e il Pará attualmente bloccato dai tribunali. Vedremo se la loro voce sarà ascoltata o se la fame di sviluppo e crescita economica del Brasile, più volte evocata da Lula, avrà il sopravvento.
Il presidente di IBAMA, il biologo Rodrigo Antonio de Agostinho, è stato piuttosto chiaro durante un incontro sul progetto europeo Amazonia+ organizzato dall’Agenzia italiana per la cooperazione e lo sviluppo a Belém, a margine della COP: «L’Amazzonia non è un paesaggio, ci vivono nel complesso 50 milioni di persone. È una guerra continua cercare di salvarla dalla deforestazione illegale, ma bisogno anche trovare un equilibrio tra salvaguardia e sviluppo sociale».
A seguire, molte altre notizie dal Global South.
Buona lettura.
Gli ecuadoriani hanno votato contro il ritorno delle basi militari straniere nel Paese, vanificando le speranze degli Stati Uniti di espandere la propria presenza nella regione del Pacifico orientale in nome della lotta al narcotraffico e di tornare in Ecuador sedici anni dopo la chiusura di un base americana sulla costa.
L’esito del referendum di domenica scorsa è stata una sconfitta anche per il presidente dell’Ecuador Daniel Noboa, che si era battuto per modificare la Costituzione e revocare un divieto approvato dal Parlamento ecuadoriano nel 2008. Aveva affermato che la base avrebbe contribuito a combattere la criminalità organizzata e a ridurre l’ondata di violenza che ha colpito il Paese negli ultimi anni, anni in cui l’Ecuador è diventato uno snodo importante per il traffico di droga verso gli Stati Uniti e l’Europa.
- Notizia di ritorno, allarmante. La Turchia starebbe esercitando pressioni sulla comunità degli uighuri, minoranza musulmana perseguitata in patria. Ci sarebbero stati alcuni casi di espulsione, un favore nei confronti di Pechino. Secondo gli osservatori, il leader turco Erdogan (nella foto) è pronto a barattare gli esuli con investimenti cinesi. Non è la prima volta che accade e ci sono state denunce da parte di associazioni umanitarie. Il numero di uighuri presenti sul territorio turco è stimato in decine di migliaia.
- Sudan. Fonti vicine all’esercito sudanese sostengono che la caduta di el Fasher nelle mani delle milizie ribelli RFS è stata favorita anche da un problema delle comunicazioni. Gli apparati radio dei soldati sono stati disturbati dalle contromisure del nemico apparso ben preparato e organizzato. I miliziani hanno ricevuto sistemi jammer dagli Emirati Arabi Uniti, paese che ha rifornimento costantemente di armi le RFS.
- Algeria. Mohammed Tadjadit, noto come il poeta dell’Hirak, è stato condannato a cinque di prigione. Singolare la ragione: apologia del terrorismo. Per le autorità algerine il suo appoggio a manifestazioni di protesta pacifiche equivale ad un atto sovversivo. Tadjadit è stato imprigionato già sei volte nel periodo 2019-2025, sempre a causa della sua posizione di dissenso manifestata sui social.
- Duelli. Omicidi, attentati, manovre sotterranee scuotono India e Pakistan, i due rivali storici. E i due governi si scambiano accuse sospettando azioni dei servizi segreti. Due punti. 1) Ci sono episodi che sono attribuibili alla strategia di movimenti estremisti (talebani, separatisti kashmiri, gruppi radicali). 2) Altri sono attacchi con motivazioni locali ma forse con intromissioni delle intelligence. Una sorta di terrorismo per procura. Insurrezione. Da decenni i ribelli naxalisti (ispirazione maoista) si battono contro New Delhi, migliaia le vittime. Martedì la polizia ha rivendicato l’uccisione di uno dei leader più importanti, Madvi Hidma, caduto in uno scontro a fuoco insieme alla moglie e a quattro militanti nell’Andhra Pradesh. Gli insorti, incalzati da diverse offensive, sono stati costretti a limitare le loro azioni in un’area nota come il corridoio rosso, settore geografico tra gli stati di Chhattisgarh e Jhakhand.
- Afghanistan. Il leader supremo dei talebani, il mullah Hibatullah Akhundaza, non si è mai mostrato in pubblico. Una ricerca di Intelfocus.org ha ristretto la caccia a Kandahar. Sono stati identificati quattro luoghi come possibili rifugi: tra questi il Mandigak Palace. E’, tuttavia, possibile che l’esponente cambi nascondiglio in modo da rendere difficile il compito ad eventuali attentatori.
- Voli. Un C-40 dell’Us Air Force è stato notato in settembre a St Croix, Virgin Island, e a novembre nella base di Comalapa, El Salvador. L’aereo merita di essere seguito perché è utilizzato per operazioni speciali. L’arrivo nei Caraibi è legato alla crisi tra Stati Uniti e Venezuela.
(Sara Gandolfi) «Se Augusto Pinochet fosse vivo voterebbe per me. Se lo avessi incontrato ora, avremmo preso una tazza di tè a La Moneda». Così parlava, nel 2017, José Antonio Kast, superfavorito al ballottaggio del prossimo 14 dicembre in Cile, citando il palazzo presidenziale di Santiago, lo stesso che il dittatore bombardò nel 1973 per eliminare Salvador Allende. Otto anni dopo, alla sua terza corsa elettorale, Kast ha moderato i toni: non parla più con nostalgia del generale che governò il Cile fino al 1990 e non promette più di liberare gli ufficiali responsabili di violazioni dei diritti civili in quegli anni. Anche perché c’erano altri candidati, al primo turno di domenica scorsa, più a destra di lui, come Johannes Kaiser, un emulo dell’ultra-libertario argentino Javier Milei, che peraltro ha ora garantito l’endorsement a Kast.
Kast è arrivato secondo alle presidenziali, con il 24,46% dei voti contro il 26,45% della comunista Jeannette Jara, candidata della coalizione di sinistra. Ma le varie formazioni di destra, che si erano presentate separate alle urne per misurare le rispettive forze, si sono ricompattate. E il leader del Partito Repubblicano vincerà, salvo sorprese, portando ancora più a destra il continente.
Dall’Alaska a Punta Arenas, l’America sta virando decisamente a destra. Secondo BMI (società di ricerca britannica, sussidiaria di Fitch Solutions), entro il 2026 solo Venezuela e Uruguay manterranno governi di sinistra, riflettendo un riallineamento politico verso politiche più autoritarie o liberiste. Un processo che è cominciato nel 2023 con la vittoria di Javier Milei in Argentina e di Santiago Peña in Paraguay, e che ha preso il volo quest’anno. A inizio 2025, Daniel Noboa è stato riconfermato presidente dell’Ecuador. In Bolivia il voto del 19 ottobre ha chiuso con una pietra tombale, dopo un ventennio, l’era di Evo Morales e del suo successore: il candidato del partito «oficialista» di sinistra ha ottenuto solo il 3% dei voti al primo turno e al ballottaggio ha vinto il senatore di destra Rodrigo Paz, che ha promesso una rottura decisiva con il passato, e la fine dei rapporti con Venezuela, Cuba e Nicaragua.
Anche il Perù, dopo l’arresto del presidente-golpista Pedro Castillo nel 2022, è stato teatro di una decisa svolta a destra, prima con Dina Boluarte, deposta ad ottobre per corruzione, e ora con José Jeri, esponente del partito conservatore «Siamo il Perù», che porterà il Paese fino alle elezioni presidenziali del prossimo 12 aprile. Infine, molti analisti danno già per scontata, nel marzo 2026, la vittoria di un candidato di destra in Colombia, dopo il turbolento governo di Gustavo Petro. La domanda chiave è se l’opposizione conservatrice riuscirà a riorganizzarsi dopo la perdita del suo candidato presidenziale più popolare, il senatore Miguel Uribe Turbay, morto due mesi dopo un attentato, durante la campagna elettorale a Bogotà.
La sinistra democratica resiste in Uruguay con Yamandú Orsi, in Messico con Claudia Sheinbaum e in Brasile con Luis Inácio Lula da Silva (ma quest’ultimo l’anno prossimo deve affrontare, a 81 anni, una nuova sfida elettorale e la destra sta già cercando un candidato post-Bolsonaro). Poi ci sono le dittature – difficili definirle ideologicamente, in realtà – di Venezuela, Cuba e Nicaragua, sempre che il presidente statunitense Donald Trump non decida di forzare la mano con la rinnovata dottrina Monroe, perché «l’America latina è il nostro cortile di casa e abbiamo diritto a garantire anche lì la nostra sicurezza», parafrasando le parole del segretario di Stato Marco Rubio.
Nella svolta a destra, sostiene lo storico e politologo uruguayano Gerardo Caetano, gioca un ruolo centrale l’inquilino della Casa Bianca: «Trump sta intervenendo incessantemente, praticamente in ogni Paese del mondo, e in America Latina in modo molto categorico», ha detto in una recente intervista, sottolineando come in molti Paesi l’estrema destra abbia scavalcato la destra tradizionale, più moderata: «Sta accadendo in Cile e accadrà sicuramente anche in Perù». Non è successo invece in Bolivia, dove Paz ha sconfitto il candidato di estrema destra Jorge Quiroga. Ma nel complesso, rileva Caetano, «esperienze ultra-radicali come quella di Nayib Bukele in El Salvador tendono a prendere piede» e, in contemporanea, «è anche uno spostamento verso un’America Latina in cui l’intervento degli Stati Uniti sta diventando sempre più palese».
Sulla stessa linea, il commento di Ernesto Samper Pizano, ex presidente colombiano (1994-1998) sul Guardian: «Con l’elezione di Trump 2.0, l’estrema destra globale ha trovato una cassa di risonanza in Florida e in tutta la regione, con il sostegno dei leader politici di Stati Uniti, El Salvador e Argentina. Trump, che ha dichiarato “non abbiamo bisogno” dell’America Latina a pochi giorni dall’inizio del suo secondo mandato, ha intensificato l’aggressività anti-latinoamericana attraverso decisioni come la persecuzione dei migranti, la sospensione dei programmi di aiuti tramite USAID, l’inasprimento delle sanzioni contro Cuba e Venezuela e le assurde rivendicazioni territoriali sul Canada, sul Golfo del Messico e sul Canale di Panama. Tutto ciò segna il ritorno dello Zio Sam degli anni ’50 e dell’Operazione Condor degli anni ’70 e ’80».
«Lasciarsi alle spalle il populismo che scoraggia gli investimenti potrebbe essere una buona notizia per la regione – commenta invece sul Miami Herald il noto opinionista Andres Oppenheimer -. Molti fondi di investimento, per quanto assurdo possa sembrare, vedono l’America Latina come un blocco omogeneo e la evitano quando percepiscono sacche di instabilità. La buona notizia è che ci sono sempre più governi responsabili, sia di centro-destra che di centro-sinistra, nella regione. La cattiva notizia è che l’America Latina, come dice il vecchio adagio, non perde mai l’occasione di perdere un’occasione».
Il think tank colombiano El Sectorial parla di «un nuovo ciclo politico che sta rimodellando il panorama economico regionale». A partire dalla schiacciante vittoria alle legislative argentine del partito di Javier Milei, con oltre il 40% dei voti, che «ha segnato una svolta in quello che i mercati chiamano il “mercato elettorale latinoamericano”: una scommessa degli investitori globali su una svolta verso politiche pro-mercato». In realtà, nel corso del 2025, le borse valori sono cresciute di quasi il 40% in tutte le regioni, con in testa Colombia, Cile e Brasile, dove governa la sinistra. «Tuttavia, dietro l’ottimismo del mercato azionario, persistono sfide strutturali: bassa crescita (la CEPAL prevede un 2,4% per il 2025), alti livelli di occupazione informale (quasi il 50% dei lavoratori) e disuguaglianze che mantengono il 10% più ricco al controllo del 66% della ricchezza della regione», conclude il think tank colombiano. La scommessa dei mercati è dunque sul tavolo, ma la vera domanda è se la regione riuscirà a trasformare questo «nuovo ciclo del capitalismo» in una crescita economica stabile e sostenibile o se i governi di destra, come accaduto peraltro a Milei, si troveranno a camminare in equilibrio precario. Sempre che non intervengano gli Stati Uniti, come successo in Argentina, o perfino la Cina, per togliere dai guai gli «amici» in difficoltà.
Conor Beakey, responsabile della ricerca sull’America Latina per BMI, è ottimista: anche se le relazioni commerciali potrebbero subire una battuta d’arresto temporanea, l’analista prevede che la crescita economica inizierà a riprendersi verso la fine del 2026 e accelererà significativamente nel 2027. Il fattore determinante, secondo lo studio di BMI, è il riallineamento politico verso una destra più autoritaria e populista. «Questo cambiamento, che si prevede graduale, è guidato da un elettorato sempre più conservatore, in particolare in Sud America, a seguito del fallimento dei movimenti di sinistra nel raggiungere un cambiamento sostenibile e duraturo», sostiene Beakey.
Shanna Bober, analista del rischio dell’America Latina in BMI, spiega che la tendenza dei governi a consolidare il potere in nome della stabilità e della governabilità è spinta dalla «fatica politica» dell’elettorato, dalle debolezze economiche strutturali, dagli scandali di corruzione e dal deterioramento della sicurezza. I cittadini stanno «ricompensando i leader che promettono risultati rapidi», anche se questo comporta una regressione della democrazia o una manipolazione istituzionale.
(Guido Olimpio) La notizia si chiude in Belgio ma inizia molto più lontano, da qualche parte del sud del mondo, e riguarda le tattiche narcos. I doganieri hanno fermato due individui all’aeroporto di Bruxelles, avevano nelle valige 108 chilogrammi di cocaina.
Ma non sono stati loro a fare da corrieri. Infatti, secondo gli inquirenti l’operazione ha confermato un modus operandi inusuale con due mosse:
- I contrabbandieri corrompono gli addetti ai bagagli di un paese africano o latino-americano affinché infilino nella stiva di un jet un borsone “non accompagnato”. Dentro c’è la droga.
- Il bagaglio viene recuperato all’arrivo da complici giunti da altre località con biglietti più economici e che si mescolano ai passeggeri davanti al nastro trasportatore. Prelevano la “partita” e se ne vanno.
Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha accennato a possibili imminenti colloqui con il suo omologo venezuelano Nicolas Maduro dopo che il Dipartimento di Stato ha annunciato i piani per designare come organizzazione terroristica straniera il cosiddetto Cartello dei Soli, che secondo Washington sarebbe agli ordini diretti del leader di Caracas.
«Potremmo avere alcuni colloqui con Maduro, e vedremo come andrà a finire,» ha detto Trump ai giornalisti all’aeroporto internazionale di Palm Beach in Florida, aggiungendo: «Vorrebbero parlare».
Chissà se la Casa Bianca farà marcia indietro rispetto ai piani bellicosi annunciati soltanto pochi giorni fa, con il lancio dell’Operazione Southern Spear.
Intanto, non si fermano gli attacchi americani contro le imbarcazioni accusate di trasportare droga.
«Mi chiamo Adriano Karipuna e sono il leader del mio popolo, della terra indigena Karipuna di Rondônia, nel nord del Brasile».
Com’è la situazione in questo momento nella vostra comunità?
«Nel mio territorio si registrano ancora invasioni, nonostante io abbia fatto numerose denunce dal 2009 ad oggi».
La polizia, il governo, cosa fanno per voi?
«L’anno scorso è stata condotta un’operazione chiamata Karipuna Disintrusion, volta a rimuovere tutti gli invasori. Ma dopo che la squadra di polizia se n’è andata, gli invasori sono tornati. C’è chi dice: “La deforestazione in Amazzonia è stata ridotta, gli incendi sono diminuiti”, ma in realtà gli invasori sono tornati nello stesso posto e hanno appiccato di nuovo il fuoco. Stanno trasformando il terreno in pascolo per allevare il bestiame, e dove hanno già bruciato, sono tornati a bruciare di nuovo, per poter riqualificare il terreno, per poter seminare».
Da quando soffre il vostro popolo?
«Il nostro popolo era quasi estinto tra gli anni ’50 e ’70. Abbiamo affrontato innumerevoli e difficili lotte. Abbiamo quasi perso il nostro territorio negli anni ’90, ci abitavano 240.000 persone e lo hanno ridotto e demarcato a 153.000. Da allora in poi, hanno iniziato a parlare di distribuzione di terre ai non indigeni. Nel 2019, è iniziata l’invasione. Poi c’è stata l’alluvione del 2014, causata dalla compagnia idroelettrica Santo Antônio Energia. Nel 2022, abbiamo sofferto un’altra alluvione, altre inondazioni. L’anno scorso, abbiamo subito un incendio in Amazzonia, e la mia gente ha sofferto molto nella sua terra indigena. Era tutto in fiamme. Ho perso mio padre perché ha inalato molto fumo. E non c’è stato tempo, è morto. In risposta a tutto questo, ci sono ancora gli invasori».
E lo Stato brasiliano?
«Lo Stato brasiliano è assente. Molto assente per quanto riguarda la protezione dei territori indigeni e dei nostri popoli.
Nel territorio Karipuna, sono presenti anche popolazioni indigene in isolamento volontario. Lo Stato deve proteggere la nostra integrità fisica. Io e il mio popolo abbiamo già ricevuto minacce di morte per aver denunciato. E adesso, qui Belém, alla Conferenza sul clima, sento parlare solo di soldi, ma a chi finiranno questi soldi?».
Parla dei soldi del Fondo per la foreste tropicali, per esempio? Dei tre miliardi di dollari promessi dalla Norvegia? Dicono che il 20 per cento andrà alla popolazione indigena…
«Non ci credo. Raggiungerà la comunità locale? Non ci credo, perché la Norvegia ha già fatto donazioni simili tempo fa e nulla è arrivato alla mia gente. Non è colpa della Norvegia. È colpa di chi sta amministrando questi soldi in Brasile. Quali persone ne trarranno beneficio? Per che tipo di progetto? Per quanti anni?».
Volete essere più coinvolti?
«Sì, vogliamo un finanziamento diretto perché il popolo Karipuna, oggi, ha la capacità tecnica, legale e amministrativa per gestire questi soldi. Invece, parlano altre persone a nome nostro. Anche noi sappiamo come parlare. Conosciamo anche i nostri diritti. Lo ripeto, non è che io sia contrario alle donazioni da parte dei Paesi stranieri. Non è questo il punto. Il problema è che quelle donazioni devono arrivare alla mia gente. E poi vogliamo sedere al tavolo delle trattative. I Karipuna devono poter parlare delle esigenze dei Karipuna, non altri».
Per voi tutto questo è colonialismo?
«Io sono uno studente di giurisprudenza, e leggo molto, anche di storia. E sì, per me, questa è una colonizzazione silenziosa. Perché, ancora una volta, un’altra persona parla per te. Ed è ancora una violenza psicologica silenziosa. È mettere a tacere la lotta di una persona, ed è ancora un etnocidio. È come dire: stai zitto, non parlare, parlerò io per te. È quello che sta succedendo. C’è ancora, non solo in Brasile, ovunque, la colonizzazione dei popoli. C’è ancora un silenzio imposto ai popoli».
Ma il presidente Lula non è meglio di Bolsonaro?
«Nelle politiche sociali sì, è migliore. Ma di recente il governo ha dato via libera alle trivelle vicino all’Amazzonia, per cercare petrolio. E non ha fatto consultazioni con i popoli indigeni. C’è mancanza di rispetto nei nostri confronti. Non hanno fatto alcuna consultazioni quando hanno deciso di costruire la mega-diga idroelettrica di Santo Antônio Energia sul territorio Karipuna, quindi sappiamo che tutto ciò si può ripetere in altri stati del Brasile. Lula parla spesso della necessità di uno sviluppo economico del Brasile. E con questo, giustifica l’esplorazione petrolifera. Ma lo sviluppo economico è un problema per le popolazioni indigene. Petrolio, acqua, legname, minerali. Il Brasile ne ha già abbastanza. Invece, dal 2017 al 2022 il territorio di Karipuna è stato distrutto: 7.400 acri di foresta, solo a Karipuna».
Una piccola isola dei Caraibi, poco più di 150mila abitanti, si è qualificata ai Mondiali, grazie al pareggio con la Giamaica nello scontro diretto. Il libro dei record del calcio è stato aggiornato: il Curacao è il Paese più piccolo a essersi qualificato ai Mondiali.
I caraibici ce l’hanno fatta pur avendo giocato senza il loro c.t. L’olandese Dick Advocaat – una lunga carriera in patria, anche una parentesi in Nazionale – è dovuto tornare a casa «per motivi familiari».
L’intero Curacao ha una popolazione paragonabile a quella di Ravenna, o Livorno, o Cagliari. Curacao si trova a circa 60 chilometri dalla costa del Venezuela ed è diventato uno Stato del Regno dei Paesi Bassi solo nel 2010, in seguito allo scioglimento delle Antille Olandesi. Ma come è possibile che un Paese come Curacao sia arrivato al Mondiale? L’espansione a 48 squadre ha aumentato le chance anche di piccole nazionali e in America non c’è la concorrenza di Canada e Stati Uniti, già qualificate in quanto organizzatrici.
Oltre alla Giamaica, Curacao nel girone ha Trinidad and Tobago (6 punti) e Bermuda (0). Il 7-0 inflitto a Bermuda venerdì ha portato il sogno a portata di mano, contro la Giamaica si è chiusa l’opera.
Il Curacao al Mondiale ha anche radici geopolitiche: molti giocatori sono infatti nati in Olanda, con legami familiari che consentono loro di essere arruolati dai caraibici. In mezzo al campo c’è Tahith Chong, da anni in Inghilterra con un passato (non fortunatissimo) al Manchester United. Juninho Bacuna, centrocampista nato a Groningen, ha giocato con l’Olanda fino all’Under-21 salvo poi scegliere di vestire la maglia del Curacao. «L’ho fatto per giocare con mio fratello e perché non avevo possibilità con l’Olanda. Ma ora sempre più giovani decidono di partire direttamente da qui». Il Curacao al Mondiale è realtà. Con buona pace dell’Italia, ancora sulla graticola.
Se il Curaçao ha conquistato la prima partecipazione in assoluto in un Mondiale senza il c.t. Dick Advocaat in panchina nella gara decisiva con la Giamaica (assente per motivi familiari), Haiti ha festeggiato il ritorno nella rassegna iridata dopo una lunghissima assenza di 52 anni, dal 1974, senza quasi mai giocare in casa e senza che il c.t. Sebastien Migné – 53 anni da compiere il 30 novembre – abbia mai messo piede nel paese.
Tutto questo perché Haiti è dilaniata dalla guerra civile, in atto dal 2021. A Curaçao, dove la Nazionale haitiana gioca, gli uomini di Migné hanno battuto 2-0 il Nicaragua facendo esplodere la festa a 800 chilometri di distanza. Un paese intero in lacrime per un’impresa incredibile: «Mi davano le informazioni sui giocatori al telefono, così ho gestito la squadra da remoto», ha spiegato Migné. Nato in Francia, l’attuale c.t. di Haiti ha girato il mondo allenando in Kenya, Sudafrica, Oman, Repubblica Democratica del Congo e Guinea Equatoriale. Allena la Nazionale haitiana dal 2024, ma quasi per «corrispondenza». Si è preso il Mondiale in un paese nel quale il calcio sembra non esistere più. Ed è stato il pallone a riportare sorriso e speranza nei pressi di Port-au-Prince, la capitale del paese.
Non esiste neanche più uno stadio, occupato prima dall’esercito, poi da bande criminali senza scrupoli che rendono Haiti uno dei paesi – se non il paese – più pericoloso del mondo tra rapine, omicidi, stupri e violenze di ogni genere. Dove per tutti gli abitanti diventa letale il mix tra povertà e criminalità. Ecco perché questa qualificazione al Mondiale 2026 viene vista come una luce nel buio del terrore.
È stato lo stesso Louicius Don Deedson, l’attaccante che ha firmato il gol decisivo, a rendere bene la situazione nella quale è finita Haiti in un viaggio senza ritorno. Lo ha fatto con poche parole: «La gente scappa, tutto è chiuso, la violenza è folle». Migné è andato oltre. Ha compiuto qualcosa di impensabile, a dimostrazione di come il calcio sappia ancora regalare storie incredibili.
TotalEnergies, società energetica francese, è accusata di crimini di guerra, che nega, per un massacro avvenuto nei pressi del suo progetto internazionale di gas nel nord del Mozambico nel 2021.
In una denuncia presentata alla procura francese, un gruppo per i diritti umani ha accusato TotalEnergies di complicità in crimini di guerra, tra cui la tortura e l’esecuzione di decine di civili, trattenuti dalle forze di sicurezza locali in container presso la sua struttura.
Total ha sempre negato la responsabilità per le azioni delle truppe governative e delle forze di sicurezza collegate, coinvolte nella sorveglianza dello sviluppo della raffineria di gas nella penisola di Afungi. Si trattava, all’epoca, del più grande progetto di investimento estero in Africa.
L’ex premier del Bangladesh, Sheikh Hasina, è stata condannata a morte per crimini contro l’umanità, per la sanguinosa repressione delle proteste antigovernative del 2024. Hasina, che vive in esilio in India, è stata processata in contumacia.
È stata riconosciuta colpevole di aver istigato e ordinato le uccisioni e di non aver fatto nulla per impedire le atrocità. Il giudice di Dhaka ha detto: «Abbiamo deciso di infliggerle una sola condanna, ovvero la pena di morte».
La Corte, riporta Al-Jazeera, ha affermato che gli attacchi durante le proteste studentesche dell’anno scorso erano «diretti contro la popolazione civile» e «diffusi e sistematici». Pertanto, «l’imputata Sheikh Hasina ha commesso crimini contro l’umanità con il suo ordine di istigazione e anche per la mancata adozione di misure preventive e punitive».
L’ex premier «ha commesso crimini contro l’umanità con il suo ordine di utilizzare droni, elicotteri e armi letali», ha aggiunto la Corte. Lunedì il Bangladesh ha chiesto all’India la sua estradizione.
L’azienda di telecomunicazioni più redditizia del Sudafrica, Vodacom Group, ha stretto una partnership con Starlink di Elon Musk per potenziare la copertura internet in Africa. L’accordo, riferisce il sito RestOfWorld, consente a Vodacom di integrare il backhaul satellitare di Starlink nella propria rete, migliorando la velocità di connettività ed estendendo la copertura «a scuole, centri sanitari e comunità remote», ha dichiarato in una nota
Vodacom, che ora è autorizzata a rivendere l’hardware e i servizi di in tutta l’Africa.
Starlink è attualmente presente in circa 25 Paesi, ma non in Sudafrica, e questo accordo potrebbe aiutare l’azienda satellitare a penetrare il mercato più maturo dell’Africa.
Il flusso di migranti dal Messico verso gli Usa si è ridotto in modo drastico dopo la stretta imposta dalla Casa Bianca. Le associazioni umanitarie che operano lungo il confine sud continuano però la loro attività di assistenza e ricerca. Il gruppo Humane Border ogni mese diffonde un breve rapporto dove indica i resti localizzati di clandestini deceduti nel deserto dell’Arizona e fornisce i primi dati in collaborazione con l’ufficio di Medicina Legale della Pima Country.
Nel mese di ottobre sono stati individuati due corpi (o ossa) di persone morte nell’arco di 3 mesi, 3 nell’arco di 6-8 mesi, una non determinata. Attualmente all’obitorio della Contea ci sono 1628 non identificati. Nelle scorse settimane è stato possibile dare un nome a cinque persone. Il database contiene 4425 casi di decesso.
Ho seguito diverse volte il lavoro sul campo del medico legale della contea e di Humane Border, due realtà diverse ma unite in una missione generosa per dare una risposta a chi ha non più notizie di un familiare che ha cercato di attraversare un territorio pieno di insidie. Caldo atroce, freddo pungente la notte, cadute, sete, le trappole della Natura e il rischio delle aggressioni dei banditi trasformano quel viaggio a piedi in una trappola.
(Agenzia Efe) Il cantante, compositore e strumentista brasiliano Jards Macalé, una delle figure di spicco della cosiddetta Musica popolare brasiliana, è morto lunedì all’età di 82 anni a Rio de Janeiro. Autore di canzoni emblematiche come “Vapor Barato”, “Mal Secreto”, “Anjo Exterminado”, “Movimento dos Barcos” e “Hotel das Estrelas”, Macalé ha collaborato con poeti come Waly Salomão, Torquato Neto e José Carlos Capinan.
Molte delle sue composizioni sono state eseguite dalle grandi figure della Musica popolare brasiliana come Gal Costa, Maria Bethânia, Clara Nunes, Elisete Cardoso, Nara Leão, O Rappa e Camisa de Vênus, tra molti altri. Ha composto anche colonne sonore per film di registi del movimento noto come «Cinema Novo» brasiliano, come Nelson Pereira dos Santos, Glauber Rocha, Joaquim Pedro de Andrade e Hugo Carvana.
Nato a Rio de Janeiro nel marzo del 1943 come Jards Anet da Silva, Macalé è cresciuto circondato dalla musica nel popolare quartiere di Tijuca, tra le samba della favela della collina Formiga e il repertorio popolare che sua madre suonava al pianoforte.
Formò i suoi primi gruppi durante l’adolescenza, quando ricevette il soprannome Macalé perché era il nome del calciatore allora considerato il peggior giocatore del club Botafogo, e studiò con insegnanti come Guerra Peixe e Turibio Santos, fino a iniziare la sua carriera professionale nel 1965 come chitarrista del Gruppo Opinião.
La sua opera, caratterizzata dalla sperimentazione e da una radicale difesa della libertà artistica, si consolidò alla fine degli anni Sessanta.




