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Addio a Gianni Berengo Gardin, il maestro dei reportage

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Gianni Berengo Gardin è morto la sera di mercoledì 6 agosto, ha confermato la figlia al «Corriere». Il fotografo dei grandi reportage, da sempre più attento alla realtà e alla gente che non al «contorno», era nato a Santa Margherita Ligure, Genova, il 10 ottobre 1930, da una famiglia profondamente veneziana. Dopo l’infanzia e gli studi a Venezia, la sua vera città natale («Sono nato in Liguria solo perché mia madre dirigeva l’Hotel Imperiale di Santa Margherita»), si trasferisce a Milano e si dedica subito all’indagine sociale: «Non ci tengo a passare per artista, l’impegno stesso del fotografo non dovrebbe essere artistico, ma civile». Con questo spirito negli anni Settanta, Berengo Gardin (spesso avvicinato per il suo lavoro a Henri Cartier-Bresson) avrebbe così realizzato con Carla Cerati Morire di Classe, reportage sui manicomi italiani che avrebbe fatto conoscere la «battaglia» di Franco Basaglia: «Ancora oggi alla facoltà di Psichiatria utilizzano quel mio libretto per far vedere quelle condizioni, le stesse dei manicomi di Gorizia, di Colorno o di Firenze… ricordo che a Firenze ci hanno fatto entrare tra i malati, quando non c’erano i direttori, facendoci passare per parenti, e che quando siamo usciti, alla sera, eravamo così frastornati e rimbambiti, che siamo corsi alla stazione per prendere il primo treno e scappare via, solo che una volta saliti, ci siamo accorti che avevamo sbagliato treno, non stavamo andando a Milano, ma a Roma».

Maestro riconosciuto del reportage, con due milioni di scatti realizzati (tra le sue «uscite» più recenti l’autobiografia con immagini In parole povere, pubblicata da Contrasto nel 2020 e la mostra curata da Margherita Naim e Giangavino Pazzola negli spazi torinesi di Camera dedicata alla sua collaborazione con Olivetti), Gianni non ha mai amato (per niente o quasi) il colore, prediligendo immagini in bianco e nero dai toni decisi, spesso riprese con obiettivi grandangolari che relegano in secondo piano la figura umana, frutto di un’attenta e meditata ricerca interpretativa nell’inquadratura e nella composizione.

Una battaglia, quella del bianco e nero contro il colore, che avrebbe affrontato imbracciando sempre le fino all’ultimo la sua (inseparabile) Leica: «La porto con me — aveva confessato nel 2020 a «la Lettura» — perché se non ce l’avessi mi direi continuamente “questa sarebbe stata una bella foto”; portarla con me, oltre che a farmi da contrappeso per la spalla, mi aiuta a essere più critico. Alla fine però di fotografie non ne scatto mai». Molto critico Berengo Gardin era stato anche sul digitale: «Non ho niente contro il digitale — risponde a sorpresa —, capisco che possa essere molto utile da un punto di vista professionale, perché ti permette di far vedere le tue foto subito anche dall’altra parte del mondo, ma in fondo se le mie foto le vedono adesso invece che tra due settimane, cambia forse qualcosa? Allora meglio sempre la pellicola perché è più morbida, più plastica, mentre il digitale è sempre più freddo, metallico, netto».

Ancora più decisa la sua posizione sul photoshop: «Sono contrarissimo al photoshop: se fosse per me lo farei abolire per legge, non tanto per la moda o la pubblicità, quanto per il reportage: è inammissibile che uno ritocchi le foto, aggiungendo un palo, togliendo un’automobile, io pretendo sempre di vedere quello che realmente il fotografo ha visto. Per questo sulle mie foto, da una decina di anni faccio sempre mettere un timbro: Vera fotografia, non modificata né inventata con il photoshop». La sua era una passione nata molto presto: «Quando ero ancora fotoamatore e vivevo a Venezia, avevo ventiquattro anni e uno zio in America».

Il primo (indiretto) contatto con Robert Capa risale ad allora: «Mio zio era molto amico di Cornell Capa, fratello di Robert, che all’epoca dirigeva l’International Centre of Photography, così gli ha chiesto: “Ho questo nipotino a Venezia che fa il fotografo, consigliami qualche libro da mandargli”, e Capa gli ha consigliato i libri di “Life”, della “Farm Security Administration”, di Dorothea Lange, di Eugene Smith». Ed è subito colpo di fulmine: «Quando ho ricevuto questi libri, di colpo, da un giorno all’altro, sono cambiato da così a così; mi sono detto: io faccio foto cretine, proprio cretine, con la fotografia invece si può davvero fare un lavoro serio, di denuncia, di racconto». Sempre e soltanto in bianco e nero però. Perché? «La televisione e il cinema, quando ho iniziato io, erano in bianco e nero e il 99% dei miei maestri erano fotografi che lavoravano in bianco e nero».

Dopo aver vissuto a Roma, Venezia, Lugano e Parigi, nel 1965 si stabilisce a Milano e inizia la sua carriera professionale dedicandosi al reportage, all’indagine sociale, alla documentazione di architettura e alla descrizione ambientale. Le sue prime foto, da semidilettante, sono state pubblicate nel 1954 su «Il Mondo», diretto da Mario Pannunzio, con cui avrebbe collaborato fino al 1965. Lavorando con le principali testate della stampa italiana ed estera, con il Touring Club Italiano e con l’Istituto Geografico De Agostini e dedicandosi alla realizzazione di numerosi libri fotografici (oltre 200). Nel 1963 era stato premiato dal World Press Photo. Nel 1990 era stato invitato d’onore al «Mois de la Photo» di Parigi dove aveva vinto il Premio Brassai. Nel 1995 aveva invece vinto il Leica Oskard Barnack Award ai «Rencontres Internationales de la Photographie» di Arles.

Oltre 200 le mostre personali in Italia e all’estero mentre le sue immagini fanno parte delle collezioni di diversi musei e fondazioni culturali, tra cui la Calcografia Nazionale di Roma, il Museum of Modern Art di New York, la Bibliotheque Nationale, la Maison Européenne de la Photographie e la Collection photo Fnac di Parigi, il Musée de l’Elysée di Losanna. Nel 1972 la rivista «Modern Photography» lo aveva inserito tra i «32 World’s Top Photographers». Nel 1975 Cecil Beaton lo aveva citato nel libro «The magic Image: the genius of photography from 1839 to the present day» mentre E. H. Gombrich lo ha indicato come unico fotografo nel libro The Image and the Eye (Oxford, 1982).

Italo Zannier nella Storia della Fotografia Italiana (Roma-Bari, 1987) lo aveva definito «il fotografo più ragguardevole del dopoguerra» ed era tra gli 80 fotografi scelti da Henri Cartier-Bresson nel 2003 per la mostra Les choix d’Henri Cartier-Bresson. Proprio al grande Cartier-Bresson si legavano alcuni dei ricordi più belli di Gianni Berengo Gardin che aveva conosciuto l’aristocratico HCB negli anni Settanta di Lanfranco Colombo (il fondatore e direttore della leggendaria galleria «Il Diaframma» a Milano: «Una delle ultime volte nel 1995 a Arles, durante i Rencontres Photographie. Passai gran parte del tempo visitando le mostre con Henri e Ferdinando Scianna. Ad un certo punto, usciti da una mostra, Henri mi chiese se avevo il suo ultimo libro, Carnet Mexicains. Gli risposi che non ero ancora riuscito a trovarlo in Italia, e lui mi prese sottobraccio e mi portò in una libreria lì vicino. Quando siamo usciti, con il libro sottobraccio, ci siamo seduti a un tavolino e Henri mi ha scritto una bellissima dedica (“A Berengo, con l’amicizia e l’ammirazione di Henri”): è stato come se mi decorassero con una medaglia d’oro, un riconoscimento che per me è stato più importante di tanti premi che ho ricevuto negli anni».

7 agosto 2025 (modifica il 7 agosto 2025 | 15:20)

7 agosto 2025 (modifica il 7 agosto 2025 | 15:20)

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