Fra Italia e Francia serve un patto di collaborazione. Anzi, «un grande piano italo-francese». Ne è convinto Luca Sburlati, presidente di Confindustria Moda dallo scorso febbraio. Perché se ormai i grandi conglomerati del lusso sono francesi, la filiera è ancora italiana. Lo ha detto anche Luca de Meo, ceo di Kering, a Class Cnbc: «L’85% della produzione del nostro gruppo è in Italia». E «la filiera va sostenuta con un accordo», sostiene Sburlati. Anche investendo nell’economia circolare. O si rischia «di fare la fine dell’automotive».
La Francia ha concluso negli ultimi 25 anni 770 acquisizioni in Italia per 97 miliardi e la moda resta uno degli obiettivi. Preda destinata?
«No. Tra Italia e Francia, in questo momento storico, non possiamo immaginare ostacoli. È evidente che ormai siamo un solo ecosistema. I grandi marchi e i conglomerati sono francesi, vero. La somma del fatturato di tutti i marchi italiani della moda è di 15 miliardi, meno di quanto fatturano da soli Chanel, 18,7 miliardi, o Hermés, 15,17 miliardi. Però in Francia non c’è la filiera e la filiera italiana vale tanto, 60 miliardi».
Anche la filiera è oggetto d’interesse…
«Vero. I francesi dapprima hanno preso i marchi italiani storici e li hanno rilanciati: Gucci, Bottega Veneta, Fendi, Loro Piana… Di recente hanno fatto acquisizioni anche nella filiera, si veda Chanel. Sono saltati interi pezzi di Toscana. Ma una parte importante della filiera è ancora italiana, perciò siamo un sistema unico. Certo, ci restano grandi marchi come Prada. Ma non possiamo pensare che la tendenza cambi a breve».
Quindi che si fa?
«Serve un grande piano italo-francese simile a quello dell’aerospazio. L’Italia è forse l’unico Paese Ue ad avere tutta la filiera della moda e del tessile. Va protetta con una strategia comune».
Al vostro Forum della moda sostenibile, il 23 e 24 ottobre a Venezia, c’era anche Kering. È un segnale?
«Sì, per la prima volta hanno partecipato anche i francesi. Non solo Kering, ma anche Pascal Morand, presidente esecutivo della Fédération de la haute couture et de la mode. È importante. Il messaggio arrivato dal Forum è che il valore aggiunto va distribuito lungo tutta la catena di fornitura, per evitare che imploda come nell’automotive. La filiera va sostenuta finanziariamente per gestire la transizione ecologica. Bisogna premiare i manager quando sviluppano alleanze, non quando tagliano».
Avete annunciato come Confindustria Moda un grande Piano strategico nazionale. Che cosa contiene?
«Lo presenteremo al Senato l’11 novembre. Va fino al 2035. Dice che la nostra industry è seconda per export, non possiamo permettere che la filiera si perda. E bisogna puntare sul riciclo dei materiali. L’Europa approvi in fretta l’Epr tessile».
È la norma che rende i produttori responsabili dei propri prodotti, quando diventano rifiuti. Che cosa cambia?
«Il tessile diventa un rifiuto prezioso per dare vita a nuovi prodotti, creando nuove filiere dall’impatto di alcuni miliardi. Utili, anche perché l’Italia non ha materie prime come il cotone o la lana».
Ma i francesi come li coinvolgete?
«Dopo la presentazione del Piano strategico apriremo un tavolo di confronto con i rappresentanti dei grandi gruppi. L’unico modo è lavorare insieme. Non ci sono buoni e cattivi, serve una piattaforma unica, ciascuno dia un contributo».
Un italiano alla guida di Kering aiuta?
«Può facilitare il dialogo. Il modello di business della moda va ripensato e de Meo, che viene dall’auto, conosce il valore delle alleanze».
Che cosa ha funzionato in Francia che da noi non c’è?
«C’è stato un supporto diverso delle banche di sistema. Inoltre qui siamo un po’ figli dell’imprenditore designer. Questo modello si è già esaurito. La guerra dei marchi c’è stata e la Francia l’ha fatta da padrone. Ora non ce la possiamo giocare da soli. Il rischio è di perdere mezzo milione di posti di lavoro nella filiera. Il governo italiano, l’Europa e le parti sociali devono avere lo stesso obiettivo: evitare l’effetto automotive».
Lei ha detto che l’Italia è sotto attacco della Cina e ha chiesto una legge come quella appena approvata in Francia…
«L’ecommerce è passato in due anni in Europa da 1,2 miliardi di pacchi all’anno a quattro. Servono una tassazione postale sui prodotti low cost, che non sono sottoposti a controlli; una legge che vieti la pubblicità ingannevole; e dazi europei anche per i prodotti venduti a meno di 150 euro. Oltre all’accordo con il Mercosur, che va ratificato in fretta».
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4 novembre 2025 ( modifica il 4 novembre 2025 | 13:22)
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