
Bentrovati,
scrivo questa newsletter da Belém, dove oggi si apre il vertice di due giorni dei capi di Stato e di governo, invitati dal presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva ad anticipare e dare la linea alla trentesima Conferenza delle parti della Convenzione delle Nazioni Unite sul Cambiamento climatico (COP30), che prenderà il via il 10 novembre.
Nessuna adunata oceanica, come accadde a Madrid (COP25) o a Glasgow (COP26), ai tempi di Greta Thunberg. Per il momento, solo tanta confusione – brazilian style, ammettono gli ospiti locali – caldo tropicale e improvvise piogge torrenziali. D’altronde, siamo alle porte dell’Amazzonia e se il centro convenzioni, che ospiterà a breve migliaia di delegati, ancora sembra una casa di cartone tutta da montare ci si consola mangiando il saporitissimo pirarucú, il gigantesco pesce di fiume che qui essicano come il baccalà, e bevendo litri di deliziosi succhi di frutta esotici, introvabili dalle nostre parti.
Il Vertice dei leader riunisce 143 delegazioni – tra cui 57 capi di Stato e 39 ministri. A dieci anni dalla firma dell’Accordo di Parigi, si fa il punto su quanto realizzato finora e si guarda al futuro, affrontando alcune questioni chiave: come riempire di significato l’impegno di «una transizione giusta, ordinata ed equa dai combustibili fossili nei sistemi energetici» (impegno sottoscritto alla COP28 di Dubai, e messo in pausa da allora); come colmare il divario di ambizione degli NDC (Nationally Determined Contributions o piani per la riduzione delle emissioni climateranti); come dare slancio alla finanza climatica, dopo la promessa fatta alla COP29 di raccogliere almeno 300 miliardi di dollari all’anno entro il 2035.
Ieri è stata presentata la “roadmap Baku to Belém” per raccogliere risorse finanziarie. La presidenza brasiliana della COP30 propone, tra le altre cose, la tassazione delle grandi ricchezze, degli aerei privati e di beni specifici – come armi e articoli di lusso – per raggiungere l’obiettivo di 1.300 miliardi di dollari all’anno per il finanziamento climatico.
Grande attesa per le parole dell’anfitrione Lula, che spera di incassare un forte sostegno politico al suo Fondo per le Foreste Tropicali (TFFF), che sarà lanciato oggi, con l’obiettivo a lungo termine di mobilitare 125 miliardi di dollari per la protezione delle foreste, i pozzi di carbonio del nostro pianeta asfissiato dalla CO2. Seguirà il discorso del segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, che darà l’ennesima sferzata ai governi che (ancora!) non fanno abbastanza per fermare il riscaldamento climatico. Nella lista finale degli speaker diffusa ieri sera non c’era nessuna conferma dei leader presenti. Sicura la partecipazione del ministro degli Esteri italiano Antonio Tajani, della premier delle Barbados Mia Mottley, della presidente della Commissione europea von der Leyen, del presidente del Consiglio europeo Costa e molti leader del Global South.
Molti ospiti Vip, causa mancanza di camere d’albergo, dormiranno sulle due navi da crociera ancorate al porto, ad oltre 30 minuti dalla sede di COP30. Lula invece ha preferito uno yacht di lusso – ribattezzato “hotel fluttuante” – ad una più spartana nave della Marina e ha decretato che Belém sarà capitale del Brasile per tutto il tempo della Conferenza.
Gli abitanti e soprattutto i commercianti della capitale del Para, a dire il vero, non sembrano molto contenti. Scuole chiuse, traffico interrotto in molte vie del centro, il grande mercato di Ver-o-Peso ripulito per l’occasione con un’operazione di maquillage che ha svuotato le bancarelle dei compratori abituali, «e gli stranieri qui non vengono perché hanno paura», dice una venditrice.
Belém è la città più violenta del Brasile, metà della popolazione vive nelle Baixadas, comunità marginali in genere situate nelle zone più basse e paludose. Quasi nessuno parla inglese o spagnolo. Così tanti “ospiti stranieri”, qui, non se ne sono mai visti.
Più di 100 nazioni hanno annunciato nuovi piani per il clima. In extremis, e quasi fuori tempo massimo, anche l’Unione europea ha finalmente approvato il suo NDC, con l’Italia che ha tenuto il freno a mano tirato. I ministri dell’Ambiente dell’Ue hanno concordato un percorso di riduzione delle emissioni del 66,25%-72,5% entro il 2035. L’accordo fa parte di un pacchetto politico più ampio, che comprende una riduzione del 90% delle emissioni entro il 2040.
Il testo, proprio per la spinta del governo italiano, include una serie di flessibilità, come la possibilità di utilizzare il 5% di crediti di carbonio internazionali di alta qualità e una revisione ogni due anni degli impegni. Come sempre, tutti si aspettano che l’Unione europea mantenga un ruolo leader nella lotta al cambiamento climatico, anche dal punto di vista finanziario. Nel 2024, l’Ue e i suoi 27 Stati membri sono stati ancora una volta i maggiori fornitori di finanziamenti per il clima al mondo, con un contributo totale di 31,7 miliardi di euro da fonti pubbliche (in aumento di quasi 3 miliardi di euro rispetto al 2023). Vediamo cosa uscirà da questo vertice.
Buona lettura.
Che per una donna sia difficile fare politica ad alti livelli è una realtà indiscutibile. Che sempre più donne, di ogni schieramento ideologico, si stiano facendo strada in un mondo fino a ieri monopolizzato dagli uomini, è altrettanto vero. Dall’Italia fino alla Namibia. Ma basta un bulletto machista, che si permette di mettere le mani addosso ad una presidente, anzi alla Presidenta come lei stessa ama definirsi, che il “mondo dei clic” e dei guardoni online, invece di parlare dell’altissimo livello di popolarità della messicana Claudia Sheinbaum e delle sue politiche riformiste, fa diventare virale il gesto molesto di un cretino qualunque.
Non riproporrò qui il video né le foto, per non alimentare ulteriormente quella che ritengo una molestia sessuale, o meglio una vera e propria violenza. Non molto diversa, in fondo, da quella che (quasi) ogni donna ha subito nel corso della sua vita, salendo su un bus affollato o passeggiando in una strada poco sicura.
L’episodio è avvenuto mentre la leader messicana si stava dirigendo a un evento pubblico vicino al palazzo presidenziale. Le immagini mostrano Sheinbaum salutare e scattare foto con gli ammiratori quando, senza alcuna guardia di sicurezza in vista, l’uomo si avvicina da dietro. Poi passa un braccio sulla spalla della presidente, mentre con l’altro braccio le tocca la vita e il petto, tentando di baciarla sul collo.
Sheinbaum ci dà la linea per dire basta. Dopo l’episodio, la leader messicana ha dichiarato che denuncerà l’aggressore, che era ubriaco ed è stato arrestato. «Ho deciso di presentare denuncia perché è qualcosa che tutte le donne del nostro paese vivono. Se lo fanno alla presidente, cosa accadrà a tutte le altre donne?», ha detto la presidente in un discorso. Applauso.
- Al Qaeda e Stato Islamico insistono con la propaganda. La componente yemenita dell’organizzazione creata da Osama bin Laden (nella foto) ha lanciato un appello a simpatizzanti e seguaci affinché colpiscano in Europa: molta enfasi sulle azioni individuali dei cosiddetti “lupi solitari”. Il messaggio è stato diffuso dopo l’attentato di Manchester condotto da un uomo di origine siriane che ha usato una vettura-ariete e un machete. Per i jihadisti è questo il modello da seguire. Diverso, invece, il tema affrontato dagli affiliati al Califfato. In un documento hanno invitato i militanti a raggiungere il Sudan per partecipare alla guerra civile “in difesa dei musulmani”.
- Kuwait. La polizia ha annunciato di aver smantellato una rete di finanziamento del terrorismo che utilizzava una farmacia. Nessun dettaglio sul gruppo di appartenenza, forse collegato con elementi all’estero. Circa un mese fa c’era stato un arresto, pare che il fermato avesse preparato un ordigno con l’intenzione di attaccare un luogo di culto. Le autorità kuwaitiane sono sempre piuttosto laconiche su questioni inerenti alla sicurezza interna.
- Iran. Ahmed Vahidi, alto ufficiale dei pasdaran, sarebbe stato promosso con un nuovo incarico ai piani alti della Difesa iraniana. Si tratta di un personaggio accusato dagli argentini di aver partecipato alla pianificazione della strage contro l’associazione ebraica Amia a Buenos Aires nel 1994. 85 i morti. Un attentato attribuito sia all’Hezbollah (fazione filo-iraniana libanese) che agli stessi servizi segreti di Teheran.
- Guinea Bissau. Numerosi alti gradi delle forze armate sono finiti in prigione: una retata presentata come la risposta ad un tentativo di colpo di Stato. L’episodio anticipa di qualche settimana le elezioni previste per la fine di novembre e segue una fase di forte instabilità con il presidente Umaro Embalò contestato duramente dall’opposizione.
Il Marocco ha dichiarato il 31 ottobre festa nazionale per celebrare il giorno in cui il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha votato a favore di una risoluzione a sostegno del suo piano per la regione contesa del Sahara Occidentale.
Nota come Giornata dell’Unità, la festa celebrerà «l’unità nazionale e l’integrità territoriale» del Marocco, secondo una dichiarazione del palazzo reale.
Venerdì scorso, le Nazioni Unite hanno approvato una risoluzione secondo cui l’autonomia del territorio conteso ma sotto la sovranità marocchina è la «soluzione più fattibile» al conflitto cinquantennale. Il Marocco controlla già gran parte del Sahara Occidentale, sebbene una parte di esso sia occupato dal Fronte Polisario, un gruppo armato che cerca la piena indipendenza per il popolo saharawi e ha già respinto il piano di autonomia: «Tra essere marocchini e resistere, resisteremo».
(Sara Gandolfi) Con l’aiuto di una fonte molto ben informata sulle rotte del narcotraffico internazionale, che ha chiesto l’anonimato, rispondiamo ad alcune domande chiave sulle responsabilità del Venezuela nel traffico di droga.
- Il Venezuela è davvero un narco-Stato?
L’Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine (Unodc), Europol e Interpol non lo considerano un narcoStato. Si parla piuttosto di un «narco-Stato funzionale». Secondo la definizione Onu, un narco-Stato è un Paese il cui governo controlla, facilita e trae profitto in maniera sistemica dal narcotraffico. Il Venezuela, innanzitutto, non è un Paese produttore di coca, come Colombia, Perù e Bolivia. E non esistono prove ufficiali che lo Stato gestisca direttamente il narcotraffico. Tuttavia, esistono forti elementi di narcoinfiltrazione istituzionale, da lì la definizione di «narco-Stato funzionale»: negli ultimi 15 anni diverse indagini della Drug Enforcement Administration (Dea) e del dipartimento di Giustizia Usa, hanno documentato una forte penetrazione del narcotraffico nelle forze armate e nella politica venezuelana. Il cosiddetto Cartello dei Soli, nato negli anni 2000, avrebbe coinvolto alti ufficiali, accusati di proteggere i flussi di cocaina colombiana diretti verso l’Europa e la zona caraibica, in collusione con i cartelli colombiani e messicani, attraverso i porti di Maracaibo, Carapano e La Guaira, con livelli di controllo doganale molto bassi. - Maduro è coinvolto nel narcotraffico?
In una situazione di collasso economico come quella che sta vivendo il Venezuela, anche a causa delle sanzioni internazionali, il regime di Maduro tollera il traffico non soltanto di droga, ma anche di oro e di carburante, e altri traffici illeciti, come fonti alternative di liquidità. Lo Stato, di fatto, utilizza la narco-economia per sopravvivere ma non si identifica con esso, come accadeva a Panama ai tempi del generale Noriega. - Qual è la principale rotta della droga verso gli Usa?
Secondo un rapporto della Dea del 2020, circa il 74% della cocaina nel 2019 è passato dal Pacifico e non dal Mar dei Caraibi. I Cartelli messicani restano i gestori dell’intera catena logistica del narcotraffico verso gli Usa. Il Venezuela ha un ruolo marginale, di transito e decollo. È un «territorio utile» perché da lì partono imbarcazioni e piccoli aerei che trasportano cocaina in arrivo dalla Colombia verso la Florida. È una «piattaforma di lancio», però secondaria rispetto ai flussi principali. - E le rotte verso l’Europa?
L’Ecuador, in particolare il porto di Guayaquil, è oggi il principale hub di esportazione di cocaina verso l’Europa, via Atlantico ovviamente. La droga è trasportata in container commerciali, carichi di prodotti legali, come banane, cacao, gamberi. Anche in questo caso il Venezuela mantiene un ruolo di supporto logistico, con partenze però dirette verso l’Africa occidentale e da lì verso Spagna, Portogallo e Italia. Anche il porto di Montevideo è interessato a questo tipo di traffico. - Il Fentanyl viene dal Venezuela?
No. È il Messico il laboratorio delle sostanze psicoattive come il Fentanyl. Il Venezuela non c’entra nulla. - Il Cartello dei Soli è un’organizzazione criminale?
Il Cartello dei Soli non è paragonabile ai narco-cartelli messicani o colombiani. In realtà, si tratta di una rete informale composta da ufficiali militari, funzionari di sicurezza e anche intermediari civili venezuelani, che protegge e facilita il traffico di cocaina in cambio di denaro e supporto politico. È una rete di corruzione e collusione: non controlla produzione e traffico di cocaina, ma assicura il passaggio e la sicurezza logistica dei carichi attraverso i porti cruciali del Venezuela, oltre all’impunità dei criminali. - E il Tren de Aragua?
Nato nel 2012 come banda carceraria nella prigione di Tocoron, in Venezuela, nel tempo si è trasformato in un’organizzazione criminale transnazionale che, attualmente, sta destabilizzando diversi Paesi dell’America Latina, tra cui Colombia, Perù, Cile, Ecuador, Uruguay, parte del Brasile, Bolivia, Panama. Ci sarebbero microcellule attive anche negli Stati Uniti. Traffica in droga, esseri umani — in particolare i migranti venezuelani — prostituzione forzata, estorsione.
Morto un amico politico, se ne fa un altro. Con l’ex alleato Jair Bolsonaro in attesa di finire in carcere – e comunque ormai fuori dai giochi politici dopo la condanna per golpe – la Casa Bianca tende la mano al leader emergente della destra brasiliana, il governatore di Rio de Janeiro, Claudio Castro, responsabile del blitz che settimana scorsa ha provocato oltre 130 morti in due favelas della città.
Il governo degli Stati Uniti ha espresso solidarietà e sostegno alle autorità dello stato brasiliano di Rio de Janeiro. In una lettera inviata al segretario di Sicurezza di Rio, Victor Santos, il capo della Divisione per la repressione del traffico di droga (Dea), James Sparks, ha lodato «il coraggio e la dedizione» delle forze di polizia, offrendo «qualsiasi tipo di appoggio necessario». Il documento, timbrato dal Dipartimento di Giustizia e firmato a nome del governo del presidente Donald Trump, esprime «profondo cordoglio» per la morte dei quattro agenti caduti durante l’operazione.
Una mano tesa che sicuramente non risulterà gradita al presidente Lula, leader del Partito dei lavoratori, che ha pubblicamente espresso sdegno e condanna politica per il sanguinoso blitz a Rio.
Stop al fumo su base generazionale. Lo aveva deciso Jacinda Ardern in Nuova Zelanda, ma la misura, introdotta nel 2022, era stata poi abrogata già l’anno successivo dall’attuale governo di Christopher Luxon. Avrà invece maggior fortuna alle Maldive? Normale chiederselo, dato che da sabato primo novembre anche nel noto paradiso tropicale dell’Oceano Indiano è entrato in vigore un analogo divieto volto a proteggere i più giovani. Approvato a maggio dal presidente Mohamed Muizzu, riguarda infatti tutti i nati dopo il primo gennaio 2007 – stranieri compresi –, ai quali dunque è ora proibito acquistare e utilizzare qualsiasi prodotto a base di tabacco nell’arcipelago (mentre le sigarette elettroniche erano già state bannate a dicembre).
«Tutelare la salute pubblica e promuovere una generazione libera dal tabacco»: questi gli obiettivi della norma, come messo nero su bianco dal locale Ministero della Salute. Un passo ritenuto ormai non più prorogabile, avendo l’Oms individuato tra i 13-15enni del Paese una quota di utilizzatori abituali di tabacco pressoché doppia di quella relativa ai 15-69enni: 45,7% contro 25,7%. E se da un lato è pur vero che la popolazione maldiviana ammonta ad appena mezzo milione di unità, dall’altro il fatto che la legge si applichi pure ai turisti la rende rilevante anche sul piano internazionale. Molto salate le sanzioni previste, su tutte quella a carico degli esercenti che faranno orecchie da mercante: 50 mila rufie, equivalenti a oltre 2.800 euro.
Resta ora da capire se tali orme verranno presto seguite anche dal Regno Unito, dove risulta ancora in fase di discussione parlamentare una proposta di legge simile approvata in prima lettura ad aprile 2024. Lobbisti del settore al lavoro per far naufragare l’ipotesi, mentre nel mondo continuano a consumare tabacco ben 37 milioni di ragazzi e ragazze tra i 13 e i 15 anni, come certificato sempre dall’Oms in occasione dell’ultimo World No Tobacco Day. E pensare che, a proposito di Regno Unito, un’analisi recentemente commissionata all’University College London ha dimostrato che fumare fa ancora più male di quanto si pensasse: non più 11, bensì 20 minuti di vita sottratti in media da ogni sigaretta. Risultato: il (diffusissimo) vizio non smette di costituire la principale causa evitabile di malattia e disabilità a livello globale, con ineludibili ricadute anche sui conti pubblici. Non solo delle Maldive.
Sarà il film-documentario Ghost Elephants di Werner Herzog ad aprire il Filmmaker Festival 2025, sabato 15 novembre alle 21.30 all’Arcobaleno Film Center di Milano. «Non dovete però aspettarvi un film sugli animali selvatici – spiega il regista in una nota -. Questo è un film su una missione. Gli elefanti compaiono per pochi secondi nelle immagini confuse di un cellulare perché nessun altro è riuscito a vederli. Ma quello che volevo era restituire il loro spirito».
Con Ghost Elephants, il regista di culto prosegue la sua esplorazione dei rapporti fra l’uomo e la natura: il protagonista, Steve Boyes, è un biologo sudafricano con l’ossessione di catturare le immagini degli «elefanti fantasma», creature misteriose che abitano gli altopiani dell’Angola e della Namibia e che forse nessuno ha mai visto. In fondo spera di non trovarli mai, così da continuare a vivere il suo sogno, quella ricerca infinita che dà senso alla sua esistenza.
Esploratore del National Geographic, ha dedicato la sua vita alla conservazione delle aree selvagge africane e delle specie che ne dipendono attraverso metodi innovativi e integrati. Nel 2015, Boyes ha lanciato l’Okavango Wilderness Project, un progetto pluriennale volto a esplorare e proteggere la natura selvaggia poco conosciuta degli altopiani angolani. Ha anche fondato il Cape Parrot Project, che mira a stimolare un cambiamento positivo per la specie attraverso ricerche di alta qualità e azioni di conservazione basate sulla comunità, ed è il direttore scientifico del Wild Bird Trust.
Herzog lo segue, anche lui non interessato agli elefanti ma piuttosto agli incontri con uomini e altri animali, alle epifanie improvvise di un paesaggio, alla registrazione dell’ostinazione spesso eroica del desiderio.
Dopo l’inaugurazione, il programma del festival prevede nove giorni di proiezioni con prime mondiali, due sezioni competitive (Concorso internazionale e Prospettive, quest’ultimo riservato ad autori e autrici italiani fino a 35 anni) e ospiti internazionali.
La vita di Richard Gott ricorda la trama di un romanzo di John le Carré. Il giornalista, saggista e storico britannico, grande esperto di America Latina (tra i suoi libri ricordiamo Cuba: A New History, del 2004), è morto a 87 anni lo scorso 2 novembre.
È stato reporter di punta ed editor per il Guardian, che ha dato ieri la notizia della sua scomparsa. Gott verrà ricordato per essere stato l’unico giornalista ad avere identificato il corpo di Che Guevara dopo la sua esecuzione, in Bolivia, il 9 ottobre 1967, da parte dell’esercito boliviano con il supporto della Cia e di truppe irregolari statunitensi.
Gott conobbe il leader rivoluzionario nel novembre 1963, mentre lavorava come giornalista freelance proprio per il Guardian, a Cuba. Il reporter venne invitato a un incontro all’ambasciata dell’Unione sovietica all’Avana, dove ebbe la possibilità di porre alcune domande al Che. Di lui, anni dopo, scrisse: «Guevara rimane una figura di tale luminosità, quasi religiosa, che non c’è alcuna possibilità che il suo esempio venga dimenticato».
Così Richard Gott raccontò il giorno in cui vide e identificò il cadavere di Che Guevara. «Alle cinque del pomeriggio di lunedì 9 ottobre 1967, a las cinco de la tarde, il corpo di Guevara, su una barella legata a un elicottero, arrivò nella cittadina boliviana di Vallegrande. Era stato fucilato circa quattro ore prima, per ordine – avremmo scoperto molto più tardi – dell’Alto comando dell’Esercito boliviano».
Continuò così: «Per circa mezz’ora fissammo gli occhi aperti del cadavere, che due medici cercavano di preservare con il liquido per l’imbalsamazione. Una folla si riversò nel cortile della lavanderia per dare un’occhiata all’ennesimo guerrigliero morto. Brian Moser scattò diverse fotografie mentre la luce calava. Poi facemmo il viaggio di ritorno di otto ore a Santa Cruz, per cercare di trovare un modo per comunicare con il mondo esterno».
«Il giorno seguente, il governo boliviano inviò dei giornalisti da La Paz per visionare il corpo. Furono scattate fotografie poi diventate famosissime, paragonate da John Berger al Cristo morto del Mantegna e alla Lezione di anatomia di Rembrandt. Quella sera, dopo che i giornalisti se ne furono andati, i due medici locali eseguirono un’autopsia, che dimostrò senza ombra di dubbio che Guevara fosse stato fucilato molto tempo dopo la cattura».
La vita di Gott prese la piega di una spy story dopo che venne accusato di essere un informatore del Kgb. Gott si dimise dal Guardian nel 1994 dopo che la rivista Spectator lo definì una spia al soldo dei servizi segreti sovietici. L’accusa si basava su informazioni fornite dal disertore Oleg Gordievsky. Gott, da parte sua, negò tutto, considerando l’accaduto una «un bizzarro ritorno al maccartismo degli anni Cinquanta», come riporta il quotidiano britannico.
Nella sua lettera di dimissioni, tuttavia, il reporter ammise di aver accettato viaggi pagati dai sovietici a Vienna e ad Atene, tra le altre città. Riconobbe di aver ricevuto «oro rosso, anche se solo sotto forma di rimborso spese». I rapporti con il Kgb cominciarono nel 1964, avrebbe poi aggiunto.
Il suo amico e collega John Gittings, ex editorialista e sinologo del Guardian, affermò che molti giornalisti, durante la Guerra fredda, vennero contattati da agenti sovietici, britannici e americani.
Bárbara Jankavski, nota sui social media come “Barbie umana” è morta a 31 anni. L’influencer brasiliana era diventata famosa condividendo la sua trasformazione attraverso la chirurgia plastica e procedure cosmetiche. Aveva oltre 55.000 follower su instagram e 344.000 su TikTok, che seguivano passo dopo passo le modifiche estreme al suo corpo.
La polizia locale ha ufficialmente registrato il caso come morte “sospetta”. Aveva passato la notte con un uomo, che ha dato l’allarme sostenendo di averla trovata immobile nel letto, ma la donna presentava diverse lesioni sul corpo.



