
Cinema di personaggi e non di soggetti, di persone e non di temi, l’opera dei fratelli Dardenne tocca qui uno dei suoi vertici più affascinanti e commoventi, tanto più convincente quanto meno programmatico o dimostrativo (come invece erano state le loro ultime regie).
Fin dalla primissima scena — una adolescente incinta (Babette Verbeek) che spia una donna adulta (India Hair) alla fermata di un autobus — siamo catturati nel meccanismo narrativo dei due registi belgi, attenti a farci conoscere le eroine di Giovani madri senza cedere mai alle spiegazioni o alle sottolineature. Ma anche senza voler giocare a rimpiattino con l’attenzione dello spettatore, come certi abusati dispositivi diventati «di rigore», messi in campo solo per stuzzicare l’attenzione di chi guarda.
No, il cinema dei Dardenne è diverso — grazie a Dio — da quello che vorrebbero imporre gli algoritmi e allora, dopo la scena un po’ misteriosa dell’attesa alla pensilina dei bus, ecco che tutto in qualche modo si chiarisce: siamo nel giardino di una casa per ragazze madri, ritroviamo l’adolescente incinta, che si chiama Jessica, e con lei ci sono delle amiche per festeggiare la partenza della giovane magrebina Naïma (Samia Hilmi), mentre facciamo la conoscenza delle altre protagoniste del film, Ariane (Janaina Halloy Fokan), Perla (Lucie Laruelle) e Julie (Elsa Houben).
Cinque ragazze che hanno trovato riparo in una struttura dove accudire o far nascere il loro piccolo, senza che nessuno le voglia pressare o indirizzare.
Sono solo loro le artefici dei rispettivi destini e il film ci mostrerà quali. Ma senza voler «spiegare» o «insegnare» alcunché. Non è questo quello che cercano i Dardenne. Piuttosto sono alla ricerca di un po’ di realtà, di un po’ di verità, anche se per catturarla devono sacrificare molto altro, per esempio scavare più a fondo nelle storie di ognuna di loro, magari per cercare quello che può «giustificare» certi comportamenti e certe scelte. No, niente delucidazioni o, peggio, determinismi.
Come spettatori si deve accettare quello che i due registi (naturalmente anche sceneggiatori) mostrano sullo schermo, e accettare il gioco che ci propongono, che poi è quello di come il cinema sappia ancora (e meglio di altri media, aggiungerei) catturare delle schegge di vita vera.
Così ci accorgiamo che dopo averla in qualche modo scaricata, la mamma di Ariane, Nathalie (Christelle Cornil), vuole in qualche nodo «impadronirsi» del suo bebè e impedirle di darlo in adozione (come invece vorrebbe la giovanissima madre) quasi per dimostrare che anche lei sa esprimere amore, dopo che invece l’alcol e la disperazione l’avevano spinta a riversare solo violenza e rabbia sulla figlia.
Un dolore, quello dell’abbandono materno che Jessica vive con strazio, pronta, dopo il parto, a rimettersi sulle tracce della madre, alla ricerca di quel «riconoscimento» di cui non riesce a fare a meno.
Qualcosa di simile a quello che sente agitarsi dentro di sé Perla, che sfoga sulla sorella maggiore l’ansia di essere anche lei segnata dall’alcolismo come la madre, mentre cerca di raggiungere i traguardi che la sorella è riuscita a raggiungere. E alla fine, Julie e Dylan (Jef Jacobs), obbligati a fare i conti con il loro passato di tossicodipendenti, sono anche gli unici che forse hanno davvero a portata di mano un futuro migliore.
Ma non è questo che interessa ai Dardenne. Loro vogliono farci entrare in una delle residenze per minori in stato interessante e lasciarci — in qualche modo — liberi di guardare, di fissare la nostra attenzione sull’una o sull’altra.
Con un percorso di immedesimazione che vede in primo piano la straordinaria prova delle cinque attrici (confesso che la prima volta che ho visto il film, pensavo che le protagoniste non fossero attrici, ma ragazze che interpretavano loro stesse) e subito dopo il coraggio di non omologare l’illuminazione dei vari luoghi ma di lasciare tutto nel modo più vero possibile, anche a costo di forti sbalzi di luce. Perché la ricerca della verità può chiedere anche questi «sacrifici».
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16 novembre 2025
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