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L’intervista integrale a Jonathan Safran Foer su Zohran Mamdani

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Pubblichiamo la versione integrale dell’intervista a Jonathan Safran Foer, realizzata poche ore dopo la vittoria di Zohran Mamdani nelle elezioni a sindaco di New York.

La sua prima reazione quando ha saputo della vittoria di Mamdani?
«Un sussulto di speranza mescolata all’apprensione. Speranza, perché la sua vittoria nasce dal desiderio di un nuovo linguaggio politico e morale. Mamdani non è un politico come gli altri, e la gente lo sa. Non parla come un dirigente d’azienda, ma come il leader di un movimento. E questo mi rincuora, specie dopo anni di discorsi tecnocratici impregnati di torpore morale. Apprensione perché la novità si accompagna spesso al rischio, e il nostro tempo è particolarmente insidioso quando si tratta di affrontare certi pericoli. Talvolta Mamdani appare troppo precipitoso nell’esprimersi, troppo vago nella retorica, e in un momento in cui le parole viaggiano più rapide delle intenzioni, quell’approssimazione può avere pesanti ripercussioni».

Ha votato per lui?
«Sono entrato nella cabina convinto di votarlo, ma alla fine non ci sono riuscito. Ho lasciato in bianco quella casella. Ovvio, è stata una specie di rinuncia morale, una ritrosia a prendere posizione anche quando la democrazia ti chiede di farlo. Ma questo riflette una mia sensazione profonda, un miscuglio di timore e scetticismo che è andato via via crescendo in questi ultimi anni. Timore di lasciarmi conquistare ancora una volta dal carisma personale, e scetticismo verso chiunque mostri eccessiva sicurezza su qualsiasi argomento. Dopo Trump a destra, e la “cancel culture” a sinistra, ho sviluppato un’allergia verso ogni genere di certezza, e altrettanto verso la spettacolarizzazione delle convinzioni. Mamdani è un maestro nel generare un’ondata emotiva online, ma governare una città richiede doti di pazienza e determinazione: capacità d’ascolto, disponibilità al compromesso, la strategia dei piccoli passi. Tutto sommato, sono felice che abbia vinto, ma la mia gioia resta provvisoria. Dipenderà dalla sua abilità nel trasformare la passione in responsabilità.

Condivide il suo programma politico? Lo trova convincente?
«Per alcuni versi, assolutamente sì. Il suo interessamento ai più deboli e alle condizioni materiali della vita quotidiana mi sembra improntato a grande umanità e coerenza intellettuale. Ci tiene a ricordare alla gente che la democrazia non riguarda solo l’identità o la morale, ma deve garantire l’accesso a una vita dignitosa. E questo è un argomento che trascuriamo ormai da troppo tempo. Le critiche che Mamdani muove alle disuguaglianze sono spesso istruttive. Quando parla di giustizia economica sa gettare ponti tra l’analisi sistemica e l’esperienza individuale.
Le mie esitazioni riguardano invece le modalità esecutive. Le idee non bastano e gli slogan non possono sostituirsi ai programmi politici. Talvolta avverto scarsa concretezza nei dettagli pragmatici, vale a dire come si governa, come si costruiscono le alleanze, come si impostano i cambiamenti duraturi. Una cosa è diagnosticare la malattia, un’altra curarla senza recar danno al paziente. Trovo convincente la sua visione complessiva, ma nutro ancora qualche dubbio sulla sua capacità nel realizzarla».

Che cosa non la convince? C’è qualcosa nel suo programma che non le piace?
«Non mi convince il suo linguaggio, che talvolta appare approssimativo. Le parole non sono orpelli del pensiero, bensì i suoi strumenti. Una frase vaga rischia di smontare una buona idea. Lo vediamo con Trump, anche se in un registro morale totalmente diverso: il linguaggio plasma l’atmosfera sociale. Può invitarci a esplorare la complessità, oppure a irrigidirci in fazioni. Mamdani talvolta preferisce la retorica eloquente a scapito dei termini precisi.
Inoltre, ha la tendenza a confondere la passione con la lucidità morale, un difetto comune ai molto giovani e agli idealisti. Ben di rado il mondo si presenta senza ambiguità. Una linea sottile divide la convinzione dalla semplificazione, e di tanto in tanto Mamdani le confonde. Tuttavia, preferisco un politico che sbaglia perché mosso da vera passione a uno che non si azzarda mai a mostrarsi coinvolto fino in fondo».

Mamdani le sembra una minaccia per la comunità ebraica di New York, come sostengono i suoi avversari, a causa delle sue posizioni su Gaza e Israele?
«No, per me non rappresenta una minaccia, tutt’altro. Le sue posizioni su Israele non mi sembrano neppure particolarmente radicali, se confrontate alle reazioni internazionali. Il problema non sta nella sostanza delle sue convinzioni, ma nello stile con cui le esprime. Le sue parole sono spesso imprecise, e nel clima attuale, la minima inesattezza rischia di passare per ostilità.
In quanto ebreo, sono molto sensibile al modo in cui ogni discorso su Israele spesso finisce per prendere di mira tutti gli ebrei. Noi ci portiamo dietro traumi generazionali che ci rendono giustamente diffidenti verso quelle figure politiche che infrangono quei limiti con leggerezza. Spero che Mamdani capirà che le parole non servono soltanto a descrivere il mondo, ma lo creano. Se sarà capace di esprimersi con maggior attenzione e consapevolezza storica, potrebbe diventare un alleato, anziché un avversario, nel dibattito sulla giustizia per tutti i popoli, compresi ebrei e palestinesi».

Che cosa potrebbe fare Mamdani per rassicurare la comunità ebraica di New York?
«Potrebbe cominciare dall’ascolto. Ascoltare realmente, non per rispondere, ma per capire. I timori degli ebrei davanti all’antisemitismo non sono frutto di paranoia, è la storia che parla attraverso di noi. Le rassicurazioni non verranno dalle dichiarazioni stampa né dalle immagini scattate davanti alle sinagoghe, ma dalla disponibilità ad aprire un dialogo scomodo, riconoscendo che ogni parola riguardante Israele avrà un effetto diverso se pronunciata da un personaggio pubblico.
Mamdani dovrà inoltre trovare la maniera di esprimere empatia per la vulnerabilità ebraica senza diluire in alcun modo la sua solidarietà verso i palestinesi. Lo so che si tratta di un equilibro difficile, ma non è impossibile. Richiede immaginazione morale, la capacità di validare due verità allo stesso tempo: che le sofferenze di un popolo non legittimano quelle di un altro, e che la giustizia non può mai esigere la cancellazione della storia dell’altro. Se riuscirà a coniugare questo genere di complessità, Mamdani potrebbe davvero diventare una figura ponte».

Crede che Donald Trump adesso prenderà di mira New York, e farà di tutto per “punire” i newyorkesi per la loro scelta, tagliando i contributi federali alla città?
«C’è da aspettarselo. L’istinto politico di Trump è sempre quello di dividere e punire. Ma non credo che il vero pericolo si nasconda nel taglio dei fondi federali, quanto piuttosto nell’erosione della fiducia civica. I leader autoritari prosperano nel caos, vogliono convincere la gente che il governo non è al loro servizio. La risposta migliore a questo tipo di aggressione sta nella competenza e nell’empatia, in una città che lavora per i suoi abitanti e nei governanti che non abboccano all’esca dell’indignazione.
Se è saggio, Mamdani si guarderà bene dal rispondere per le rime. La vera sfida per lui non sarà di gridare più forte dei suoi oppositori, ma di ascoltarli più da vicino, per governare con impegno, piuttosto che combatterli».

Mamdani sarà in grado di concretizzare tutti i punti del suo programma politico in una città come New York?
«Nessuno potrà mai svolgere il suo programma politico in tutto e per tutto a New York. La città è un groviglio di interessi contrapposti, egocentrismi e burocrazie, ma qui sta anche il suo genio: sa opporsi a ogni genere di intransigenza. La questione non è se Mamdani realizzerà tutto quello che ha promesso, ma se riuscirà a spostare il centro di gravità morale di qualche grado verso l’empatia e la giustizia. Se farà sentire la voce dei suoi cittadini, specie di quei newyorkesi che non sono stati visti né sentiti per decenni, quello sarà già un risultato notevolissimo.
La vera sfida sarà riuscire a mantener vivo l’entusiasmo che lo ha portato alla vittoria elettorale non appena si vedrà costretto a scendere a compromessi. I movimenti vivono di purezza ideologica, i governi di compromessi. E la transizione è sempre dolorosa».

Gli analisti politici affermano che quella di Mamdani rappresenta la vittoria della nuova generazione di elettori, soprattutto i giovani. È d’accordo?
«Sì, ed è fonte di grande speranza per me. Per anni, i giovani sono stati descritti come apatici, disinteressati alla vita civica. L’ascesa di Mamdani dimostra che non è vero. I giovani aspettavano soltanto qualcuno che parlasse il loro linguaggio di urgenza e serietà morale. Mamdani attinge a qualcosa di molto più profondo di una piattaforma politica: l’esigenza di trovare nuovi significati.
Detto questo, i movimenti giovanili gettano radici stabili solo se sanno trasformarsi in istituzioni. La passione deve tradursi in pratica. Se Mamdani sarà capace di convogliare le energie giovanili in strutture di impegno sociale durature, come scuole di educazione civica, assemblee di quartiere, esperimenti di democrazia locale, solo allora questa vittoria non sarà effimera, ma produrrà un cambio di paradigma generazionale».

Pensa che il partito democratico riuscirà a risalire la china dopo queste elezioni e a riconquistare le simpatie degli americani?
«Dipenderà se il partito saprà trarre le dovute lezioni da vittorie come quella di Mamdani. Avverto la tentazione di idealizzare o respingere figure come la sua, per inquadrarle esclusivamente come salvatori o radicali. Ben più saggio sarebbe prestare attenzione a quello che la loro popolarità ci rivela: una fame profonda di un nuovo linguaggio morale in politica. La gente vuole ascoltare leader che siano assolutamente convinti delle loro idee.
Se il partito democratico saprà riscoprire questo aspetto della politica, senza trascurare il pragmatismo, potrà davvero riconquistare il terreno perduto. Ma dovrà dimostrarsi competente e ispirare alti ideali, dando prova di umanità e serietà. Mamdani non sarà forse la perfetta incarnazione di quell’equilibrio, ma il suo successo è la prova che i cittadini sono pronti al cambiamento. Resta aperta la questione: il partito avrà il coraggio di confrontarsi con questa nuova realtà?» 

(traduzione di Rita Baldassarre)

6 novembre 2025

6 novembre 2025

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