
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
GERUSALEMME – Le olive attaccate ai rami sono sempre più mature. Le mani dei contadini palestinesi avrebbero dovuto raccoglierle una ventina di giorni fa. I coloni israeliani portano via le scale a pioli da appoggiare ai tronchi, le reti sui cui lasciar cadere i frutti verdognoli, spezzano le dita che dovrebbero staccarli, bruciano le piante centenarie che crescono tra le foglie.
Come ogni anno, quest’anno peggio di tutti, la stagione del raccolto diventa stagione di caccia per i ragazzi delle colline che arrivano dagli avamposti vicino e attaccano chi prova ad avvicinarsi agli alberi: a Turmus Ayya, due settimane fa, un giovane armato di bastone con la punta di metallo ha colpito una donna fino a lasciarla per terra tramortita. L’abito lungo tradizionale, il velo rossastro, Afaf Abu Alia — madre di cinque figli, nonna di nove nipotini — incespica tra le pietre color ocra, prova a scappare: l’assalitore — nel video raccolto da alcuni testimoni — ha il volto coperto dal passamontagna nero, sul petto porta solo un piccolo tallit bianco, il capo indossato dai religiosi ortodossi.Â
Le Nazioni Unite hanno già registrato 86 assalti dagli inizi di ottobre, in totale oltre 50 villaggi — da nord a sud della Cisgiordania — hanno subito i vandalismi, 112 palestinesi sono stati feriti, 3 mila ulivi danneggiati. I filmati mostrano le auto incendiate, l’assedio attorno alle case anche di notte, gli insulti urlati contro i bambini che vanno scuola. Spesso mentre le truppe israeliane stanno a guardare o allontanano gli arabi per evitare quelle che chiamano «frizioni». Un termine neutro che vorrebbe distribuire le colpe alla pari, che non sembra distinguere tra chi di quelle olive ci vive e le scorribande violente degli estremisti.Â
Eppure gli ordini dati ai comandanti stabilirebbero che i militari «devono facilitare l’accesso dei proprietari ai loro campi. Anche quando si presentino altre persone al loro posto per proteggerli da elementi criminali che cercano di impedire di raggiungere le coltivazioni». Perché durante la raccolta delle olive gli attivisti israeliani e internazionali tentano di mettersi in mezzo, di fare da scudo contro la ferocia dei coloni. «La situazione è sempre più difficile — spiega Avi Dabush dell’organizzazione pacifista Rabbis for Human Rights al quotidiano Haaretz —. In passato riuscivamo a coordinarci con i militari, a ottenere il loro sostegno e l’assistenza. Dopo il 7 ottobre del 2023 c’è stata una rottura totale: non ci ascoltano più e non intervengono per fermare queste milizie».Â
Ieri un drone — gli ufficiali stanno indagando se lanciato dai soldati — è caduto su un gruppo di volontari, ferendo un israeliano. Le incursioni si sono intensificate dopo i massacri perpetrati dai terroristi di Hamas due anni fa nei villaggi a sud di Israele. I leader dei coloni fanno parte della coalizione di estrema destra al potere e i loro proclami favorevoli all’annessione della Cisgiordania incitano i fanatici a terrorizzare i palestinesi che vivono sulle stesse colline, a pochi chilometri di distanza: l’obiettivo dichiarato è spingerli ad andarsene. «Yalla, sparite adesso. Questa terra è mia», urla un ragazzo ripreso dagli attivisti ai palestinesi che cercano di restare nella loro proprietà .Â
L’allevamento delle pecore e delle capre rappresenta assieme alle olive una delle principali fonti di sostentamento, soprattutto nei villaggi più poveri, poche case, a volte cubi di cemento che sembrano capanne. Due giorni fa le telecamere di sicurezza in una mangiatoia hanno filmato un gruppo di coloni che bastonano gli agnelli, li sollevano per sbatterli a terra, li prendono a pietrate sul muso. Il rabbino Dabush ha scritto anche alla procura generale dello Stato, preoccupato per il numero sempre più alto di coloni armati con fucili mitragliatori, che fanno parte delle «squadre di difesa locale»: «Quello che è cominciato con qualche lancio di pietra rischia di finire con proiettili e uccisioni».
4 novembre 2025
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