Una multinazionale tascabile. Così Aldino Bellazzini definisce Sparco, l’azienda torinese che nel 2025 è campione del mondo di F1 per la seconda volta dopo la vittoria del titolo costruttori della McLaren. «Siamo parte della vettura — dice il presidente e ad — perché forniamo le cinture di sicurezza». E quelle cinture, leggere e resistenti, sono il simbolo di un’Italia che sa competere nel mondo con la forza della tecnologia e dell’artigianalità.
Sparco, acronimo di Società Produzione ARticoli COmpetizione, nasce nel 1977 dall’intuizione di tre piloti torinesi che inventarono il concetto di abbigliamento ignifugo da corsa. Da allora, la sicurezza è diventata il cuore del marchio. Quando Bellazzini la rileva nel 2009, l’azienda è in difficoltà: 350 dipendenti e 30 milioni di fatturato. Oggi conta 1.750 dipendenti, 15 stabilimenti (di cui 6 in Italia) e una presenza in oltre cento Paesi. Il fatturato ha toccato i 157 milioni nel 2024 e punta a 170 nel 2025, con un ebitda del 14%. Il 42% dei ricavi arriva dal racing, il 36% dall’Oem — i componenti in fibra di carbonio per le supercar — e il 22% dalla business unit dedicata all’abbigliamento da lavoro e ai dispositivi di protezione individuale.
Manager di lungo corso — quasi trent’anni in Olivetti e dodici in Petronas — Bellazzini ha portato in Sparco la cultura industriale e la visione internazionale maturate in due scuole d’impresa che hanno formato generazioni di dirigenti. Lo scorso giugno il presidente della Repubblica Sergio Mattarella lo ha insignito del titolo di Commendatore al Merito della Repubblica italiana.
Presidente, che valore ha vincere in F1 con un brand sinonimo di sicurezza?
«Siamo un fornitore di supertecnologia. Il fatto che team campioni del mondo abbiano scelto le nostre cinture conferma che Sparco è sinonimo di affidabilità e innovazione».
Dopo l’onorificenza ricevuta dal presidente Mattarella, come si traduce l’orgoglio “made in Italy” nel vostro modo di fare impresa?
«È la dimostrazione che le istituzioni sanno riconoscere chi crea valore e benessere. Quando ho rilevato Sparco c’erano 350 dipendenti e 30 milioni di fatturato, oggi 1.750 persone e 170 milioni. Abbiamo generato valore, lavoro, pil. E questo, credo, è il vero orgoglio italiano».
Qual è stata la leva decisiva del rilancio?
«Abbiamo applicato il buon senso manageriale. Rimesso in ordine i processi, cambiato qualche persona, investito. Il marchio aveva ancora un valore enorme. Siamo partiti da lì e l’abbiamo riportato dove meritava».
La crescita è costante dal 2010.
«La chiave è stata la diversificazione. Il motorsport da solo non bastava. Nel 2014 abbiamo aperto il business delle componenti in carbonio per le supercar. Ma un tavolo non sta in piedi con due gambe e così abbiamo aggiunto la terza nel 2018: i dispositivi di protezione individuale (Dpi), forti dell’esperienza maturata nello sport dove vendiamo sicurezza. A fine 2025 il carbonio raggiungerà circa 61 milioni, il Dpi 37».
Quali mercati trainano di più?
«Dopo 50 anni di vita dell’azienda, con il business del motorsport siamo presenti in tutto il mondo. Nel settore del carbonio lavoriamo per chi produce supercar, quindi soprattutto per aziende italiane, ma l’output finale è tutto il mondo. Per i Dpi siamo concentrati su Italia e Spagna e abbiamo iniziato l’espansione in Germania e Francia».
Lei arriva da due grandi scuole industriali, Olivetti e Petronas. Quanto hanno inciso nel suo modo di gestire Sparco?
«Olivetti è stata la mia università del management: intuizione sì, ma sempre guidata dai numeri. Ho avuto grandi maestri, l’ultimo l’ingegner Carlo De Benedetti. Petronas mi ha insegnato la dimensione imprenditoriale: gestire azionisti, creare business. È lì che ho capito cosa significa davvero fare impresa».
Com’è fare impresa in Italia oggi, anche con la scure dei dazi americani?
«Non sono i dazi il problema, ma la burocrazia. Per acquistare un immobile già esistente ci abbiamo messo due anni. È un sistema bizantino. I dazi resteranno, perché diventano una voce di bilancio dello Stato. Più insidiosa è la svalutazione del dollaro: un dazio invisibile. Ci si adatta, cercando efficienza e riduzione dei costi».
La leggerezza delle vostre tute da Formula 1 è diventata un simbolo. Quanto investite in ricerca e sviluppo?
«Per il motorsport circa il 10% del fatturato. Nel Dpi investiamo tra il 4 e il 5%. E poi un ulteriore 10% va in advertising e sponsorizzazioni».
Lavorate con Ferrari, Lamborghini, Bugatti, McLaren. Che cosa chiedono oggi i costruttori premium?
«Qualità estrema, costi competitivi, logistica perfetta. Produciamo tutto a mano: per 60 milioni di fatturato nel carbonio servono mille persone, ovvero duemila mani esperte. Collaboriamo con il Politecnico di Torino per formare giovani tecnici, e con agenzie di lavoro per addestrare nuovi operai accanto ai maestri. La formazione è la chiave».
Fornite tutti i dipendenti di Amazon in Europa e Acrobatica con i vostri Dpi. Altri accordi in arrivo?
«Amazon è il partner più grande. Acrobatica è un modello unico. Stiamo negoziando con un’altra azienda che sorprenderà: un business del tutto inatteso».
Quanto inciderà il business dei Dpi sul gruppo nei prossimi anni?
«L’obiettivo minimo è 100 milioni di fatturato, circa il 3% del mercato europeo. È un traguardo ambizioso ma realistico».
Dopo aver risanato e rilanciato Sparco, qual è oggi la sua sfida personale?
«Non ho più sfide a 77 anni. Ho ancora voglia di lavorare ma la vera passione oggi è il vino. E non deve diventare un business, altrimenti perde la magia. Quando vado in cantina non voglio pensare ai numeri. Solo a rilassarmi».


4 novembre 2025
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