C’è un filo che unisce le curve del Pil ai futuri assegni pensionistici. È un filo che, negli ultimi anni, si è fatto più teso e più sottile. Perché se l’Italia cresce, le pensioni salgono. Se rallenta, il montante contributivo — quella sorta di conto corrente virtuale su cui sono registrati i contributi versati — diventa più leggero. E oggi, con una prospettiva di crescita reale intorno allo 0,6-0,8% per i prossimi anni, secondo il Documento di economia e finanza, l’Istat e anche Confindustria, la traiettoria è tracciata.
Il sistema contributivo
Non è una questione astratta da sala convegni: è un tema di conto mensile, di vita reale. L’Italia è entrata stabilmente nella stagione del contributivo puro, il sistema inaugurato nel 1995 con la riforma Dini e oggi dominante nel calcolo degli assegni. La pensione finale viene calcolata sulla base di tutti i contributi versati alla previdenza pubblica e quel calcolo ha un motore principale: l’andamento del Pil nominale nei cinque anni precedenti.
Il confronto che fa rumore: 1,5% ipotizzato, 0,6-0,8% reale
Nella riforma del ’95 c’era un tacito quanto ottimistico presupposto: l’Italia avrebbe continuato a crescere. Per questo, le relazioni tecniche fissarono una soglia: con una crescita annua attorno all’1,5% reale, il contributivo avrebbe garantito prestazioni equivalenti al vecchio retributivo. Ma da allora, il Pil italiano è stato spesso molto sotto questa soglia. E oggi i numeri tornano a presentare il conto.
Gli esempi
Per capire meglio come stanno le cose, il Sole24Ore ha fatto l’esempio di due lavoratori «contributivi puri», entrati nel 1996 e usciti a 64 anni nel 2025. Carriere simili all’inizio, diversi percorsi poi: uno arriva a 50 mila euro, l’altro a 75 mila. Nel primo caso, con la crescita effettiva, non si raggiunge nemmeno la soglia minima per pensionarsi. Nel secondo, l’assegno è circa il 20% più basso rispetto allo scenario in cui il Pil fosse cresciuto ai livelli attesi nel 1995. Non è un dettaglio tecnico. È la distanza tra una vita programmata e una vita da ripensare.
Il paracadute del 2026 (che non basta)
Ma una notizia buona, per una volta, c’è: chi andrà in pensione nel 2026 beneficerà di una rivalutazione del montante del 4,04%, certificata dall’Istat e comunicata dal ministero del Lavoro. Tradotto: 250 mila euro di contributi diventano 260.111. Meglio dei 3,66% dell’anno precedente e molto meglio dei ritmi pre-pandemia.
Ma è un’ondata favorevole con poca profondità. Quel 4,04% include un recupero di periodi precedenti e riflette una dinamica del Pil nominale, non reale. Soprattutto, non cambia la struttura del problema: un Paese che cresce stabilmente sotto l’1% non può promettere pensioni robuste con un sistema interamente ancorato al Pil.
Il nodo che si avvicina
Il contributivo è equo, dicono i tecnici. Traduce esattamente ciò che versi in ciò che ricevi. Ma è anche spietato in un’economia a bassa velocità. Perché:
* i contributi non vengono accantonati davvero ma usati per pagare pensioni correnti (il sistema resta a ripartizione);
* la rivalutazione dei contributi segue il Pil, non l’inflazione;
* con carriere discontinue, salari più bassi e inflazione intermittente, il risultato tende a schiacciarsi.
E mentre la platea dei contributivi puri cresce, si avvicina il momento in cui la comparazione con il vecchio retributivo diventerà quotidiana, non accademica. Il patto previdenziale degli anni Novanta ora scricchiola. Non perché sia sbagliato, ma perché è figlio di condizioni che non ci sono più. Nel lungo periodo — spiegano economisti e atti ufficiali — si dovrà intervenire su una delle tre leve: crescita, contributi, età pensionabile. In ordine di desiderabilità, l’Italia vorrebbe agire sulla prima. Ma da vent’anni la realtà grafica delle curve racconta altro.
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4 novembre 2025 ( modifica il 4 novembre 2025 | 18:04)
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