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Tre robot per ogni operaio in magazzino: così la rivoluzione di Amazon macina utili e lascia indietro i lavoratori

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Amazon è il secondo datore di lavoro privato degli Stati Uniti (dopo la catena di supermercati Walmart) e negli ultimi anni è diventata sempre più importante: dal 2018 a oggi ha triplicato il numero dei suoi dipendenti, aggiungendo 1,2 milioni di posti di lavoro. Nessun’altra compagnia è stata capace di fare altrettanto. È anche una delle aziende più tecnologicamente avanzate del mondo, per come sa incorporare le tecnologie digitali e informatiche nel suo modello di business. È di lunedì 3 novembre la notizia del suo accordo da 38 miliardi di dollari (il doppio della manovra economica italiana, per intendersi) con ChatGpt. Non c’è da stupirsi se le rivelazioni sui suoi possibili tagli del personale, come quella fatta dal New York Times qualche giorno fa secondo cui la compagnia progetta di sostituire 600 mila posti di lavoro con robot, facciano subito discutere. E siano viste come un’anticipazione di quello che faranno le altre grandi aziende.

L’obiettivo di raddoppiare le vendite

Dopo la pubblicazione dell’articolo, che si basa su documenti interni all’azienda, Amazon ha specificato che quel progetto «non rappresenta la nostra strategia complessiva di assunzione nelle varie linee di business operative, né ora né in futuro», ma solo un aspetto delle sue politiche del lavoro. Il documento analizzato dal New York Times si riferiva in effetti agli operai dei magazzini Amazon e partiva dal fatto che l’intenzione della compagnia è raddoppiare le vendite (per numero di prodotti) da qui al 2033. Una simile crescita, alle condizioni attuali, comporterebbe la creazione di 600 mila nuovi posti di lavoro. Invece i suoi dirigenti puntano ad «appiattire la curva delle assunzioni», un’orrenda espressione del gergo aziendalista che significa una cosa molto semplice: non vogliono aumentare la forza lavoro della compagnia.

La robotizzazione dei magazzini

Karen Weise sul New York Times racconta con ammirazione come, in uno dei più avanzati magazzini della compagnia che si trova a Shreveport, in Louisiana, la maggior parte del lavoro di cernita, trasporto e impacchettamento sia già effettuato da macchine, tra cui bracci robotici con ventose capaci di prendere e spostare una maglietta (identificata grazie all’AI) da un cesto di plastica sui nastri trasportatori. Amazon ha rivoluzionato tutta l’organizzazione del magazzino per rendere la sua automazione più efficiente ed efficace. Intanto a fine settembre ha presentato un nuovo sistema robotico, che è in fase di test nella Carolina del Sud, che coordina più bracci per eseguire contemporaneamente operazioni di prelievo, stoccaggio e riorganizzazione dei magazzini e permette di usare un’unica linea di assemblaggio invece delle tre precedenti. Sta anche testando un sistema di calcolo predittivo (basato sull’Ai) che aiuta i manager umani a distribuire i lavoratori ed evitare strozzature nei processi produttivi.

Oggi nell’azienda lavora già un milione di robot a fianco dei dipendenti e «l’AI sta condensando in pochi mesi i processi di ricerca per tentativi ed errori» per lo sviluppo di nuovi modelli che prima richiedevano anni, ha dichiarato il responsabile della tecnologia di Amazon, Tye Brady. I robot spostano ad alta velocità fino al 75% dei prodotti nei magazzini, «come giocolieri», riporta l’agenzia Ansa.

Il numero chiave è proprio 75%: Amazon punta ad automatizzare i tre quarti delle operazioni dei suoi magazzini, che così richiederanno pochissimo personale. «Amazon è così convinta che questo futuro automatizzato sia dietro l’angolo che ha iniziato a sviluppare piani per mitigare le ricadute nelle comunità che potrebbero perdere posti di lavoro» scrive il New York Times. «I documenti contemplano l’opportunità di evitare l’uso di termini come “automazione” e “intelligenza artificiale” quando si parla di robotica, e di utilizzare invece termini come “tecnologia avanzata” o sostituire la parola “robot” con “cobot”, che implica la collaborazione con gli esseri umani».

I posti di lavoro tagliati

L’automazione non è di per sé un male: i posti di lavoro che Amazon vuole eliminare nei suoi magazzini implicano attività faticose, ripetitive e pericolose. Spinte dall’imperativo della velocità (Amazon si è conquistata i suoi clienti anche perché è il negozio online più veloce nel consegnare i prodotti), le catene di montaggio Amazon erano note per la quantità di incidenti sul lavoro. Negli anni scorsi diverse indagini del Ministero del Lavoro americano hanno scoperto che «Amazon esponeva i lavoratori dei magazzini a un alto rischio di lesioni alla schiena e altri disturbi muscoloscheletrici» dovuti all’«elevata frequenza con cui i dipendenti dovevano sollevare pacchi e altri oggetti», al «peso elevato degli oggetti maneggiati», al fatto che i lavoratori dovevano «contorcersi, piegarsi e allungarsi in modo scomodo per sollevare gli oggetti» e alle «lunghe ore di lavoro necessarie per completare i compiti assegnati». Una Commissione del Senato americano ha anche accusato Amazon di aver manipolato i dati sugli infortuni sul lavoro per far sembrare i suoi magazzini più sicuri di quanto non fossero in realtà.

L’automazione diminuisce i rischi di infortuni perché diminuisce i movimenti fatti dagli esseri umani. «La tecnologia sta cambiando in meglio la natura stessa del lavoro», ha dichiarato il direttore di Amazon Robotics, Aaron Parness. Prima dell’arrivo dei robot Kiva, dieci anni fa, i dipendenti dovevano percorrere anche 30 chilometri al giorno tra gli scaffali. «La robotica fa sì che non debbano più camminare così tanto. Penso che con i bracci robotici e l’AI accadrà lo stesso: potremmo eliminare il lavoro ripetitivo e banale».

Non c’è dubbio che questo sia un bene, soprattutto se quello che sparisce è anche lavoro pericoloso. Ma non si può non considerare un’altra questione: cosa faranno le centinaia di migliaia di persone il cui lavoro verrà sostituito dalle macchine. È una questione particolarmente scottante perché nel sistema privatistico degli Stati Uniti lavorare o non lavorare in un’azienda come Amazon significa anche avere o non avere l’assistenza sanitaria. E può fare la differenza per centinaia di migliaia di lavoratori non qualificati. Amazon sostiene che avrà bisogno di «tecnici per la manutenzione, la gestione della flotta robotica e il supporto ingegneristico». Ma ovviamente questi saranno molto meno dei magazzinieri necessari oggi. È un problema comune a tutta l’industria digitale, che ha pochi dipendenti rispetto alla ricchezza e ai servizi che produce.

Intanto i cambiamenti tecnologici oggi sono diventati così veloci che è difficile governarli. Ed è inevitabile che creino tensioni sociali. Il rischio è, come racconta Luca Angelini in questa newsletter, che la politica in cerca di consensi risponda con false soluzioni populiste. Ma il problema c’è e deve porselo.

La politica di Trump

Oggi il governo americano, sotto la guida del presidente Donald Trump, sta facendo di tutto per togliere vincoli allo sviluppo delle grandi aziende tecnologiche. Ma non sta facendo niente per costringere quelle stesse aziende ad avere una responsabilità sociale, e a redistribuire in qualche modo i grandi profitti che accumulano grazie alla loro capacità di innovazione.

Giovedì Amazon ha annunciato profitti ben superiori alle aspettative per il terzo trimestre di quest’anno. In soli tre mesi ha registrato un utile netto di 21,12 miliardi di dollari (di nuovo, più dell’intera finanziaria italiana), oltre 5 miliardi in più dello stesso periodo dell’anno scorso. Le vendite di Amazon sono aumentate a 180,2 miliardi di dollari, rispetto ai 158,88 miliardi di dollari dello stesso periodo dell’anno precedente. E il numero di articoli venduti da Amazon nell’ultimo periodo è aumentato dell’11%. Intanto i dirigenti e i grandi azionisti di Amazon pagano pochissime tasse, grazie alle leggi americane (mentre Trump ha minacciato di punire con dazi più alti tutti i Paesi che cercano di tassare le Big Tech). Le tasse però sono un modo per ridistribuire la ricchezza e far sì che non rimanga solo nelle mani di pochi.

Le scappatoie per non pagare le tasse

Secondo un rapporto dell’Institute for Policy Studies (Ips), un centro studi progressista americano, Amazon ha usato crediti e scappatoie fiscali per evitare di pagare anche l’aliquota dell’imposta sulle società ridotta al 21% dai repubblicani nel 2017 con il Tax Cuts and Jobs Act (TCJA), che fu firmato dal presidente Trump. «Se avesse pagato l’intera aliquota legale del 21% tra il 2018 e il 2021, la sua spesa fiscale sarebbe stata di 12,5 miliardi di dollari» in più. Nel 2018, per esempio, Amazon non ha pagato tasse a livello federale. «Dalla riforma fiscale del 2017, il fondatore di Amazon Jeff Bezos ha intascato 36,6 miliardi di dollari di plusvalenze dalla vendita di azioni della sua società. Ha pagato 6,2 miliardi di dollari in meno di imposte federali su questi guadagni rispetto a quanto avrebbe pagato se il Tax Cuts and Jobs Act del 2017 avesse reso le aliquote fiscali sul reddito da capitale uguali a quelle sul reddito da lavoro». Sempre secondo l’Ips, l’amministratore delegato di Amazon «Andrew Jassy ha risparmiato quasi 7 milioni di dollari grazie alla riduzione dell’aliquota fiscale massima» decisa nel 2017 e «i lavoratori di Amazon in percentuale pagano più tasse per la previdenza sociale di Jassy». Intanto «tra il 2018 e il 2024, il reddito medio dei lavoratori Amazon è aumentato solo del 3,3%, mentre gli affitti sono aumentati in media del 9,2%».

È evidentemente un sistema sempre più squilibrato, in cui i pochi vincitori si prendono tutto. La risposta non può essere un’opposizione luddista alla tecnologia. Ma la politica ha il compito di riequilibrare il sistema, che altrimenti non reggerà più. Deve fare in modo che la diminuzione del lavoro umano, non importa se impiegatizio o operaio, non si traduca in un impoverimento di massa. Ne va della tenuta delle nostre società. Democrazia compresa, come insegna la storia.

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4 novembre 2025 ( modifica il 4 novembre 2025 | 15:16)

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