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Maggio Musicale Fiorentino, «Lucrezia Borgia» rivive negli anni Cinquanta

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Santa o assassina? Dark Lady dei veleni o abile politica e fine sostenitrice delle arti? Vittima della violenza maschile o Messalina dissoluta, un amante via l’altro, padre e fratello compresi?

Su Lucrezia Borgia se ne sono dette e scritte di ogni tipo. Oggetto di scandalo e dicerie in vita, l’esser morta di parto a 39 anni dopo aver essersi spesa in opere di carità per i poveri, non valse a sfatarne la fama sulfurea, dilatata da accuse e calunnie sempre più infamanti.

«Una leggenda nera ripresa da Victor Hugo, che ne fece l’eroina perversa di una pièce di gran successo. Donizetti la vide e decise di trarne un’opera» spiega Andrea Bernard, regista premio Abbiati 2024, ora impegnato nel nuovo allestimento di Lucrezia Borgia, dal 9 novembre al Maggio Musicale Fiorentino, Giampaolo Bisanti sul podio, Jessica Pratt nel ruolo del titolo.

A lungo bersaglio di censure, l’opera subì tagli e modifiche per aver portato in scena un papato corrotto sessualmente, una madre trasformata in un mostro che seduce il proprio figlio e lo avvelena.

«Ed è proprio questa maternità lacerata, negata, ritrovata, la chiave per rileggere una figura complessa come Lucrezia e pure il filo rosso di uno spettacolo che ho voluto ambientare nella Roma papalina fine anni ’50, alla vigilia de La dolce vita — racconta Bernard —. Dove, invece di Alessandro VI, padre di Lucrezia e altri innumerevoli figli, in Vaticano siede quel Pio XII fin troppo assente davanti al nazismo e fin troppo presente nel manovrare, complice l’amico Andreotti, una Dc baluardo contro i comunisti da poco scomunicati».

Una presenza, quella di Andreotti, evocata sotto le mentite spoglie di Alfonso d’Este, il violento marito di Lucrezia che si rigira le mani nel tipico gesto del divo Giulio e sotto le ricche vesti indossa il cilicio «come certi notabili democristiani».

Quanto a Pio XII, apparirà coi celebri occhialini di metallo. Mentre una schiera di preti e cardinali irromperà in una festa che ricorda il baccanale de La dolce vita.

«Un omaggio al capolavoro di Fellini compreso lo spogliarello con cui Aïché Nana scandalizzò l’Italia e la fece sognare. Una svolta nel costume, che segnò il distacco dalla chiesa accentratrice di Pio XII, morto poco prima che il film uscisse».

Il cinema di quegli anni ha offerto molti spunti. «Per metter in risalto lo scontro tra politica e chiesa ho attinto al lato grottesco di Todo Modo, dove Petri mostra una Dc intenta a sbranarsi durante un ritiro spirituale. Mentre C’eravamo tanto amati di Scola mi ha suggerito come mostrare una generazione di giovani idealisti disillusi, per cui Flaiano coniò lo slogan, qui appeso in scena, “siamo pochi e indecisi a tutto”».

Tra bagliori di un fascismo che non se n’è mai andato e una sinistra sempre pronta a dividersi, quei film, avverte il regista, «ci mostrano quelli che eravamo e che siamo ancora».

E Lucrezia? «In un mondo tossico di uomini corrotti e violenti, sparge i suoi veleni per difendersi, per trovare la sua rivalsa, vendicarsi dei tanti abusi patiti da chi diceva di amarla, padre, fratello, mariti, amanti. Per mostrare chi è comparirà vestita da Papessa. Non vittima ma neanche carnefice, la perdita del figlio è la sua ferita insanabile. Dietro le quinte del palazzo s’intravede una culla, un cavalluccio. La stanza del bambino perduto».

In quel labirinto di dolore dove la scena girevole moltiplica le culle a velocità cinematografica, Lucrezia si perderà, compirà l’ultimo fatale crimine. «Perché, per dirla con Fassbinder, alla fine uccidi sempre chi ami».

4 novembre 2025

4 novembre 2025

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