
È giunto il momento di affermare che per i narratori questi tempi sono diventati un problema. Sto parlando degli anni che stiamo vivendo, l’oggi assoluto — il tempo che già possiamo chiamare come verrà chiamato fra cent’anni dagli storici, e cioè: il post-covid. Per una lunga serie di ragioni (così lunga che qui non può essere nemmeno sintetizzata), l’oggi assoluto è diventato piuttosto malagevole per la letteratura: regressivo, antiestetico, antietico, antistorico, antidemocratico, antiscientifico, antiepistemologico, troppo banale, troppo rabbioso, troppo disintermediato — in una parola, impraticabile. È un sentimento che comincia a emergere con una certa frequenza in molti autori e a spingere l’opera letteraria contemporanea all’indietro o all’avanti nel tempo (opere storiche o distopiche) pur di non ritrovarsi l’incombenza di doverlo affrontare. Per la verità sembra diventato impraticabile anche come puro oggetto di sguardo: si ha l’impressione di non poterlo nemmeno guardare come si dovrebbe guardare il presente — come il XIX e il XX secolo hanno insegnato a guardarlo; si ha l’impressione che «volontà e rappresentazione» si siano scisse irreversibilmente e che questa scissione abbia provocato l’emersione di tutto ciò che è stato latente nel periodo più florido, pacifico e costruttivo che la nostra civiltà abbia conosciuto; si ha l’impressione che la fine di quella latenza danneggi la nostra vista, la abbagli, la bruci. La tentazione di distogliere lo sguardo è dunque forte, ben motivata.
Poi però ci sono i maestri, cioè coloro che insegnano come si fa. Robert Louis Stevenson mostrò come si poteva raccontare l’irraccontabile, nella fattispecie la terrificante trasformazione fisica di un essere umano in un altro. Da quella scena, così micidiale da rovinare per sempre la vita di chi vi assiste, il lettore viene tenuto distante grazie alla protezione di tre sguardi intermedi: quello di Enfield e di Utterson, che hanno visto Hyde ma non la trasformazione (e la descrizione che Utterson fa di Hyde è una memorabile anticipazione del concetto di perturbante che verrà fissato da Freud nel suo saggio del 1919), e quello del dottor Lanyon, testimone oculare che prima di morirne indirizza a Utterson il racconto scritto della dolorosa e, appunto, terrificante trasformazione cui ha avuto la sventura di assistere, di un losco minuto individuo vestito da fattorino nel grasso dottore vittoriano col quale aveva litigato e poi fatto pace. Tre diversi sguardi e tre diverse voci, tre filtri che rendono tollerabile la più ossidrica delle immagini. Stevenson era un maestro.
Anche Ian McEwan è un maestro, e anche lui in questo suo nuovo romanzo (Quello che possiamo sapere, Einaudi, traduzione di Susanna Basso) ci mostra una maniera di raccontare l’irraccontabile — l’irraccontabile in questo caso essendo per l’appunto il tempo presente di cui sopra. Sviluppando proprio la lezione di Stevenson, sposta il tempo del racconto in avanti di un secolo e così facendo trasforma il presente in passato, dopodiché lo riporta indietro — e tutte le tossine che lo rendevano impraticabile sono scomparse. (Chissà se nel concepire questa manovra ha pensato all’abbattimento del pesce, che vi elimina i batteri e i parassiti e una volta riportato allo stato naturale permette di mangiarlo crudo in sicurezza). Inoltre, anche lui, come Stevenson, ricorre a una pluralità di voci e al loro intreccio nello spazio e nel tempo fino a moltiplicare in maniera molto emozionante anche la storia stessa che va raccontando. Ma qui subentra l’obbligo di tacere, poiché lo schema narrativo adottato da McEwan renderebbe automaticamente spoiling ogni ulteriore informazione su questo aspetto. Mi sia solo consentito dire che questo romanzo è l’ennesima dimostrazione che una buona storia è sempre almeno due storie, a volte tre e in alcuni casi anche quattro storie — vedi per esempio i Vangeli.
Quello che possiamo dire di Quello che possiamo sapere è che è diviso in due parti, e che è consigliabile, qui, per la ragione detta sopra, parlare solo della prima. La quale si svolge nel futuro, per la precisione nell’anno 2119, e ha come protagonista Thomas Metcalfe, uno studioso di letteratura inglese del periodo 1990-2030 (di questo periodo, quello che stiamo vivendo noi). In un mondo brutalizzato dall’avverarsi di tutte le nostre (di adesso) più catastrofiche preoccupazioni (quel Grande Disastro, come viene chiamato nel XXII secolo, che combina insieme i danni del riscaldamento globale con quelli della guerra nucleare), in cui la popolazione umana risulta dimezzata e l’innalzamento dei mari riduce il Regno Unito a un ingarbugliato arcipelago, Metcalfe vivacchia coi magri proventi dell’attività accademica (le materie umanistiche, e in particolar modo quelle letterarie, hanno perso attrattiva tra gli studenti) ma vive con passione la sua ricerca di un tesoro nascosto: si tratta di un poemetto scritto dal grande poeta Francis Blundy nel 2014 del quale si perdono le tracce subito dopo la sua lettura ad alta voce durante la cena di compleanno della moglie Vivien, cui era dedicato. Non è solo, in questa ricerca, perché accanto a lui c’è Rose, amica che si rivela amante e compagna ideale, anche lei professoressa di letteratura, anche lei frustrata dal primato accademico delle scienze, anche lei attratta da questo capolavoro scomparso. Che si tratti di un capolavoro lo affermano i commensali presenti a quella cena, compreso Blundy stesso, poeta che i critici dell’epoca (di questa nostra epoca) avevano già collocato nell’Olimpo della poesia di lingua inglese, insieme a T. S. Eliot, Wordsworth, Auden, Larkin, Sylvia Plath e perfino Shakespeare.
Dunque questa prima parte è composta dalla storia d’amore tra Tom e Rose, alimentata e tenuta insieme dalla loro ricerca del poemetto, e dalla ricerca stessa, tramite la quale, in un mondo reso poco accessibile dal violento downshifting inflittogli dal Grande Disastro, viene ricostruito il nostro attuale stile di vita. E qui emerge il primo dei tre grandi vantaggi che McEwan si procura grazie a questa manovra: la ricerca del capolavoro andato perduto attingendo alle fonti che sono sopravvissute a guerre e inondazioni, cioè i miliardi di fotografie, email, post sui social, chat et similia, trattenuti nelle nuvole dei dati web, porta al bizzarro risultato di poter ricostruire tutto della famosa cena in cui il poemetto è stato letto (menu servito, tipo di patate scelte, vini stappati, umore e impressioni a caldo dei convitati), ma niente di tutto ciò permette di fare un solo passo avanti per ritrovarlo.
Ecco perciò che la fitta nube di futilità, stupidità e narcisismo da quattro soldi che ci avvolge e ci rende molto difficile raccontare il nostro tempo viene mostrata per quello che è: una madornale, colossale perdita di tempo, per noi che l’abitiamo come per l’uomo del futuro che faccia l’errore di andare a cercarvi dentro le cose importanti: semplicemente, in quella nube le cose importanti non ci sono — e il poemetto di Blundy, mentre tutt’intorno a lui si ricrea uno scenario costituito di migliaia di inutili dettagli, rimane introvabile.
Ma questo è solo il primo vantaggio generato dalla manovra, e come ho detto McEwan se ne prende altri due. Il secondo è che mentre Metcalfe si impregna della paccottiglia del nostro tempo alla ricerca del poemetto, di questo nostro tempo si ritrova a provare una strana irresistibile nostalgia. È la sua stessa voce a dircelo, lamentando la mancanza di una parola che indichi la nostalgia che prova lui, per un tempo che non ha mai vissuto (ma Metcalfe non sa che la parola invece esiste, è anemoia: coniata nel 2012 dal regista, scrittore e doppiatore americano John Koenig per il suo Dizionario delle tristezze senza nome, e ottenuta mediante la fusione tra i termini greci ánemos, vento, e nòos, mente, significa esattamente «nostalgia per esperienze, luoghi o tempi mai vissuti»). Una voce, quella dell’accademico del XXII secolo, che dalle ristrettezze tecnologiche e materiali nelle quali si dibattono i sopravvissuti del Grande Disastro rievoca le meraviglie del passato che sta studiando (il nostro tempo), quando i suoi avi (noi) apparecchiavano la catastrofe poi effettivamente sopraggiunta vivendo e sbandierando fino all’ultimo il privilegio di viaggiare senza fatica da un capo all’altro della Terra, mangiare cibi buonissimi, consumare ogni genere di prodotto, inquinare impunemente acqua, terra e aria e addirittura consultare liberamente, senza dover passare per l’autorizzazione governativa, l’intelligenza artificiale. Ecco dunque che questo nostro tempo orrendo nel quale riesce così difficile mettere a dimora la letteratura è diventato addirittura meraviglioso.
Infine, poiché, oltre che un Maestro, McEwan è McEwan, il terzo vantaggio: questa anemoia per il XX e il XXI secolo, già di per sé divisiva (gli studenti non la condividono affatto, e disertano i suoi seminari), degenera in Metcalfe fino a farlo letteralmente innamorare di Vivien, la moglie di Blundy, destinataria del poemetto e probabilmente responsabile della sua sparizione: l’accanita lettura dei suoi diari, delle sue email e di ogni documento intimo che la riguardi alla ricerca di indizi che possano condurlo all’opera perduta, finisce per produrre un disperato desiderio di lei, come fosse la sua dirimpettaia nello studentato dove alloggia — desiderio che ovviamente finisce per generare una crepa reale nel suo idillio reale con Rose, unico essere reale con cui Tom può condividere vita, passioni, ed essere felice.
Ecco, immaginate la cucina di Ian McEwan alle prese con questi ingredienti; immaginate la sua eleganza, la sua intelligenza e la tensione che il suo stile è costantemente in grado di generare alle prese con questa caccia al tesoro nello spazio-tempo, in un mondo nel quale anche andare in rovina è un destino molto più roseo di quello toccato a quattro miliardi di esseri umani spazzati via in pochi anni dalla faccia della Terra: immaginate tutto questo e vi sarete fatti un’idea di cosa vi aspetta leggendo metà di questo romanzo. Già, perché tutto questo compone la prima parte del libro, e come detto c’è una seconda parte che rappresenta il frutto del capolavoro compositivo architettato con la prima. Un secondo romanzo ambientato stavolta nel nostro tempo — perché adesso, dopo l’abbattimento che ha tolto di mezzo le tossine, si può. Di questo niente dirò (e tanto invece vorrei dire) per non sabotare l’urto emotivo che esso produce nel lettore. Dirò soltanto che tutto insieme, prima e seconda parte, Quello che possiamo sapere è un romanzo bellissimo: esperimento di «fantascienza senza scienza», come lo ha definito McEwan stesso, languida meditazione sulla poesia, serena maledizione contro l’idiozia che sta mandando in vacca il nostro pianeta, impavida dimostrazione del primato della Letteratura sulla Storia ma soprattutto, appena tre anni dopo Lezioni, nuova limpida lezione sull’insostituibilità del romanzo, vivo o morto che vogliate considerarlo.
Il tour: appuntamenti con i lettori a Modena, Mantova e Torino
Nato ad Aldershot, in Inghilterra, nel 1948, Ian McEwan è tra le figure più importanti della narrativa inglese tra XX e XXI secolo, tra i cinquanta più grandi scrittori britannici dopo il 1945 secondo il «Times» e tra le cento figure più influenti della cultura britannica per il «Daily Telegraph». Sei volte candidato al Booker, ha vinto nel 1998 per Amsterdam (Einaudi, 1998). Tra gli altri romanzi: Bambini nel tempo (1987; Einaudi, 1988), Espiazione (2001; Einaudi, 2002), Solar (Einaudi, 2010). McEwan sarà in Italia per alcuni appuntamenti: domenica 16 novembre, ore 17.30, Modena, Forum Monzani, con Vincenzo Latronico; lunedì 17, ore 21, Mantova, Teatro Bibiena, con Gaia Manzini (in collaborazione con Festivaletteratura); mercoledì 19, ore 21, Torino, il Circolo dei lettori, con Telmo Pievani.
2 novembre 2025 (modifica il 2 novembre 2025 | 14:51)
© RIPRODUZIONE RISERVATA
2 novembre 2025 (modifica il 2 novembre 2025 | 14:51)
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