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Quando «alieno» diventa il pensiero. Lo studio della natura ai giorni nostri

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Le specie «aliene» esistono grazie a noi. In un modo o nell’altro, quando un essere animale o un vegetale si spostano in un territorio in cui non erano presenti e lo modificano a scapito di chi c’era prima, è quasi sempre l’effetto dell’azione dell’essere umano. 

A volte si tratta di scelte deliberate, come quando si introduce una specie in un territorio a fini di caccia o di allevamento; a volte di «incidenti di percorso», come nel caso del granchio blu, che è arrivato nei nostri mari trasportato nelle acque di zavorra dei cargo transatlantici. A volte, ancora, è l’effetto indiretto delle attività umane di lungo periodo, per esempio il cambiamento climatico che ha indotto o favorito migrazioni, come la moltitudine di creature marine originarie di aree più calde che attraverso il canale di Suez si sono accomodate nel Mediterraneo, dove le temperature più alte favoriscono il loro insediamento. La loro presenza modifica gli ecosistemi. A volte diventano invasive, a volte soppiantano i loro omologhi autoctoni perché hanno caratteristiche che le rendono più forti o più resistenti.

Nei giorni scorsi a Bologna si sono svolte le Giornate internazionali di studio di Siua, l’istituto fondato dal filosofo e zooantropologo Roberto Marchesini, che hanno messo a confronto scienziati e studiosi evidenziando, tra l’altro, la necessità di una nuova etica ecologica, che metta le relazioni tra l’uomo e l’ambiente al centro dell’analisi. Relazioni che, come ha spiegato il filosofo John Baird Callicott, vengono sempre meno, condizionate dall’invasività della tecnologia, che ci distrae e spesso ci domina, determinando le nostre azioni.

La tecnologia ha agevolato molto l’azione umana. Ma come avviene in natura con le specie aliene, si rischia un effetto sostituzione. Nella fattispecie, ad essere sostituiti sono spesso il pensiero, delegato sempre più all’intelligenza artificiale, e l’osservazione diretta della natura, affidata alle immagini che la Rete ci mette letteralmente in tasca, ovvero nei nostri smartphone. Anche il lavoro di ricerca, pure nel campo ambientale, avviene spesso all’interno dei laboratori e davanti ad un computer e sempre meno sul campo, ovvero nell’ambiente e nella natura.

Un processo inevitabile? Può essere. Ma per recuperare un po’ del fascino antico dell’osservazione diretta della natura un’occasione può essere la visita al Must, il museo di storiografia naturalistica che viene inaugurato domani all’interno dell’Università di Parma, che abbiamo avuto la fortuna di visitare in anteprima. Un museo antico e innovativo al tempo stesso, che propone un percorso attraverso migliaia di reperti provenienti da grandi collezioni. Un archivio di biodiversità che mostra l’evoluzione delle specie e anche l’evoluzione del modo di raccontarle ai visitatori. C’è chi usa l’espressione «roba da museo» per definire qualcosa di ormai superato. Ma il museo non è ancora da museo. E se vi capitasse di fare un salto al Must capirete perché.

1 novembre 2025 ( modifica il 2 novembre 2025 | 10:06)

1 novembre 2025 ( modifica il 2 novembre 2025 | 10:06)

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