
Poche settimane prima di essere ucciso Pier Paolo Pasolini, siamo nell’ottobre del 1975, scrive una lettera a Gian Carlo Ferretti in cui annuncia di aver quasi concluso Salò, di voler iniziare un nuovo film,
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, e, soprattutto, di aver deciso di dar vita a una nuova rubrica sul «Corriere della Sera». Il titolo che Pasolini aveva scelto fa pensare a leggerlo oggi, cinquant’anni dopo la sua morte. Voleva che la rubrica si intitolasse semplicemente «Che dire».
«Che dire» dell’assassinio di uno dei più grandi intellettuali italiani in quella metà degli anni Settanta, anni che stavano prendendo il volto nero del terrorismo e della violenza politica? So bene che la Cassazione ha concluso che Pino Pelosi, allora diciassettenne, avrebbe da solo ucciso e martoriato lo scrittore di Ragazzi di vita. Ma so, per usare una formula pasoliniana, che il giudice del tribunale minorile, Alfredo Carlo Moro, fratello di Aldo, scrisse nella prima sentenza di condanna di Pelosi: «Il collegio ritiene che dagli atti emerga in modo imponente la prova che quella notte all’Idroscalo il Pelosi non era solo».
«Modo imponente». Invece fu facile e utile far passare la tesi che Pelosi avesse fatto tutto da solo perché Pasolini, dopo un rapporto orale, avrebbe voluto violentarlo. Fu questa la tesi dei processi successivi. Essa servì ad esempio a un giornale di destra, «Il Borghese», per emanare una sentenza anticipata: «Quella tragica notte, fra le baracche del lido di Ostia, il rapporto era estremamente rovesciato: volendo usare termini correnti, Pasolini era “il mostro”, Pelosi “la vittima”».
Si voleva fare giustizia non delle responsabilità della morte di Pasolini ma della sua vita, delle sue parole, del suo pensiero. Si voleva utilizzare il suo assassinio per giustiziare le sue idee.
Dopo cinquant’anni io continuo a pensarla come Alfredo Carlo Moro. E non solo perché un giorno del 2011 incontrai Pelosi e lui mi disse testualmente: «Pasolini mi ha fatto salire in macchina a Termini. Siamo andati a cena al Biondo Tevere. Poi siamo andati all’Idroscalo e abbiamo avuto un rapporto sessuale. Io sono sceso dall’auto per fare pipì. Dopo qualche secondo ho visto arrivare una moto con due persone a bordo e un’auto, forse una 1300 o una 1500, con quattro uomini. In seguito ho ricordato che ci seguivano dalla stazione. Un paio di loro hanno tirato Pier Paolo fuori dall’abitacolo e hanno cominciato a picchiarlo, era a terra già mezzo morto quando gli sono passati addosso con l’auto».
E aggiunse che quella sera e poi in carcere lo avevano continuato a minacciare di far male a lui e alla sua famiglia. E mi disse che gli assassini erano vivi e lui ancora li temeva.
Ho conosciuto Pasolini, ci sono foto di un comizio che tenemmo insieme, nel settembre del 1975, contro il regime di Franco che aveva deciso di passare per la garrota un giovane antifascista. Tutte le volte che ho parlato con lui ho avuto la sensazione di trovarmi di fronte a un cervello gigantesco immerso in una grande solitudine. E a una libertà intellettuale senza pari, coniugata a una insaziabile fame di vita.
Una volta, rispondendo a Italo Calvino — prima di TikTok erano questi i protagonisti del confronto civile — che aveva polemizzato con lui sull’aborto, accusandolo di rimpiangere l’Italietta, Pier Paolo disse: «Io so bene, caro Calvino, come si svolge la vita di un intellettuale. Lo so perché, in parte, è anche la mia vita: letture, solitudini e laboratorio, cerchie in genere di pochi amici e molti conoscenti, tutti intellettuali e borghesi, una vita di lavoro e sostanzialmente perbene. Ma io, come il dottor Hyde, ho un’altra vita. Nel vivere questa vita devo rompere le barriere naturali e innocenti di classe, sfondare le pareti dell’Italietta e sospingermi quindi in un altro mondo: il mondo contadino, il mondo sottoproletario, il mondo operaio… L’Italietta è piccolo-borghese, fascista, democristiana, provinciale e ai margini della storia; la sua cultura è un umanesimo scolastico formale e volgare. Vuoi che rimpianga tutto questo? Per quel che mi riguarda, personalmente, questa Italietta è stata un paese di gendarmi che mi ha arrestato, processato, perseguitato, tormentato, linciato per quasi due decenni».
La vita era stata dura, per Pasolini, a cominciare dalla morte di suo fratello Guido, partigiano ucciso da partigiani comunisti nella strage di Porzûs. E poi le persecuzioni per le sue scelte sessuali, l’espulsione dal Pci al quale aveva deciso di iscriversi e a cui, comunque, non mancherà di far avere il suo consenso, fino alla famosa dichiarazione di voto del 1975. E le censure subite dall’Italia bigotta per i suoi scritti e i suoi film. Una vita difficile.
Perché Pasolini è sempre stato un «irregolare», imprevedibile nei giudizi, meravigliosamente contraddittorio, illuminato sempre dalla virtù del dubbio, la più laica delle convinzioni. Poteva denunciare, «Io so», lo stragismo e le complicità dello Stato e prendere invece posizione contro l’aborto, in nome di una «ecologia della vita» che aveva il segno della sua drammatica religiosità. Era sempre lui, fuori dai recinti ideologici, come a suscitare conflitti per misurare la forza delle sue argomentazioni e dimostrare che c’erano verità che andavano cercate, non rivelate.
Irregolare e solo, così Pier Paolo si sentiva, si è sempre sentito. Ha scritto: «Se sono indipendente, lo sono con rabbia, dolore e umiliazione: non aprioristicamente, con la calma dei forti, ma per forza. E dunque, se mi preparo a lottare, come posso, e con tutta la mia energia, contro ogni forma di terrore è, in realtà, perché sono solo. Il mio non è qualunquismo né indipendenza: è solitudine. Ed è questo, del resto, che mi garantisce una certa, magari folle e contraddittoria, oggettività. Non ho alle spalle nessuno che mi appoggi e con cui io abbia interessi comuni da difendere».
Aveva paura della omologazione che nella separazione tra sviluppo, cioè la crescita economica, e progresso, cioè la qualità della vita, cancella le differenze, i linguaggi, le radici e le identità. Temeva l’uomo nuovo «amorale» che la televisione e il consumismo stavano forgiando.
Chissà come avrebbe vissuto questo tempo di occhi bassi sullo schermo di un cellulare e di omologazione a un linguaggio violento e intollerante delle differenze.
Non gli piaceva il sessantotto, lo dirà nel famoso testo Il Pci ai giovani scritto dopo gli incidenti di Valle Giulia. Per lui quel movimento, borghese, non aveva capito che la scienza stava trasformando il capitalismo. Rimpiangeva, altro tema simbolicamente ecologico, la luce delle lucciole cancellate dall’inquinamento.
Aveva nostalgia del passato? Sì, un intellettuale ha il diritto di averla, un politico no.
Era libero, irregolare e solo. Quella solitudine di cui parlerà, quasi profeticamente, in Versi del testamento (L
a solitudine): «Bisogna essere molto forti/ per amare la solitudine; bisogna avere buone gambe/ e una resistenza fuori del comune; non si deve rischiare/ raffreddore, influenza o mal di gola; non si devono temere/ rapinatori o assassini».
Quelli che lo hanno ucciso hanno impedito, a noi tutti, di sapere come avrebbe proseguito il suo «Che dire».
Perché di quel modo di pensare e di parlare, di quel pensiero e di quella libertà, si sente oggi, senza vergognarsene, grande nostalgia.
31 ottobre 2025 (modifica il 31 ottobre 2025 | 08:10)
© RIPRODUZIONE RISERVATA
31 ottobre 2025 (modifica il 31 ottobre 2025 | 08:10)
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