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«Maccheroni» compie 40 anni, Ettore Scola dirige un duo di superstar

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Maccheroni di Ettore Scola, uscito nelle nostre sale il 24 ottobre 1985, vanta un singolare primato: è il primo film italiano ufficialmente distribuito da una major (la MGM/UA) nelle sale americane. Un caso atipico, perché fino ad allora anche i grandi autori (come Fellini, Antonioni, Bertolucci o Leone) arrivavano nei cinema statunitensi come indipendenti, mentre MGM decise invece di trattare il film come titolo “ufficiale” del proprio listino, con un’uscita limitata ma nazionale. Il che fu reso possibile dal duo di superstar chiamato a interpretarlo: Jack Lemmon, all’epoca ancora nome di forte richiamo per il pubblico americano, e il grande Marcello Mastroianni, ancora tra i nomi nostrani più riconoscibili e rispettati all’estero.

Diciassettesimo titolo (ventesimo, includendo i tre film collettivi a cui ha preso parte: Thrilling, 1965; Signore e signori buonanotte, 1976, e I nuovi mostri, 1977) del regista campano “naturalizzato” romano, è quello che nel bene e nel male meglio rappresenta la transizione della sua opera, dopo tre quasi-capolavori misconosciuti come Passione d’amore (1981), Il mondo nuovo (1982) e soprattutto Ballando ballando (1983), nel territorio della la memoria come luogo dell’identità. È un film certamente minore, e poco amato dalla critica dell’epoca, ma in realtà costruito con una idea forte che avrebbe meritato un miglior esito e una maggiore fortuna. Girato a Napoli, Maccheroni mette in scena l’incontro tra due mondi, due tempi e due stili di vita: quello del manager americano Robert Traven (Jack Lemmon), di ritorno nella città dove aveva combattuto durante la guerra, e quello di Antonio Jasiello (Marcello Mastroianni), vecchio amico e custode di un passato che probabilmente non è mai del tutto esistito se non nella sua reinvenzione. Robert, manager americano di un’industria aeronautica, pragmatico e disincantato, torna in Italia dopo molti anni di assenza. Durante la seconda guerra mondiale aveva avuto una relazione con una giovane del posto, Maria Jasiello. Alloggiato in un albergo di Napoli e seguito dalla dottoressa De Falco (Daria Nicolodi), riceve la visita di Antonio (Marcello Mastroianni), fratello maggiore di Maria, che sostiene di conoscerlo da tempo. Robert però non lo riconosce: i ricordi di quel periodo si sono dissolti, come la memoria di un’altra vita. 

Spinto dalla curiosità, grazie anche alla moglie di Antonio, Carmelina (Isa Danieli), l’uomo decide di rintracciarlo sul posto di lavoro e tra i due nasce una nuova, inattesa complicità. Antonio lo introduce nella propria quotidianità e lo accompagna a casa dell’ormai anziana sorella Maria (Clotilde De Spirito), ora moglie, madre e nonna, restituendo all’americano un frammento di umanità perduta. Nel breve soggiorno partenopeo, Traven viene progressivamente conquistato dall’accoglienza e dal calore di quella famiglia, fino a rendersi conto dell’aridità della propria esistenza. Quando arriva il momento di ripartire, scopre però che Antonio sta tentando di raccogliere una somma ingente per salvare il figlio Giulio (Bruno Esposito), minacciato dalla camorra per debiti di gioco. Robert allora interviene e paga personalmente i cinque milioni di lire necessari; ma l’emozione è troppa per Antonio, il cui cuore non regge alla commozione. Traven si ritrova così per l’ultima volta nella casa dei Jasiello, dove la famiglia è riunita a tavola attorno a maccheroni fumanti, mentre nella stanza accanto giace il corpo dell’amico. Nessuno osa toccare il cibo, ma tutti fissano l’orologio appeso alla parete, in attesa delle 13: l’ora in cui due volte, in passato, Antonio, dato per morto, aveva inspiegabilmente ripreso vita. Accadrà di nuovo? 

All’indomani della prima italiana, Morando Morandini titolava la sua recensione sul Giorno con un inappellabile e sarcastico “Maccheroni scotti”, per sottolineare la debolezza complessiva del film, che ai suoi occhi mancava del calore e della misura tipiche del miglior Scola, sottolineandone il carattere “molle” e sintetizzando bene la sensazione di un’opera impregnata di una certa stanchezza autoriale che finiva col farla risultare sfibrata e sentimentalmente artificiosa. Aveva probabilmente ragione, nell’ottica dell’epoca e della stagnante condizione coeva del cinema italiano “d’autore”. Ma l’intento perseguito da Scola con i fidi sceneggiatori Ruggero Maccari e Furio Scarpelli era quello di costruire una commedia della disillusione, mossa tra ironia, malinconia e riflessione civile in cui era centrale la scelta di Napoli come luogo dove il tempo non scorre ma si accumula, dove il presente sopravvive solo grazie alla capacità di ricordare e di fingere. 

E dove il personaggio di Antonio, tenendo in vita un’amicizia mai del tutto consumata e inventando lettere, fotografie, ricordi condivisi, combatteva con materia “calda” e popolare la freddezza del capitalismo yankee incarnato da Traven. La tensione tra realtà e invenzione diventa così a posteriori la chiave di volta di un film sicuramente imperfetto, ma sorretto da una intuizione importante e coerente con la poetica dell’autore: Scola suggeriva infatti che la memoria, anche quando falsifica, è un atto etico che serve a umanizzare l’assenza e (forse) a ricucire le fratture del tempo. Un gesto politico, come nella tradizione “militante” del regista, ma traslato: e offerto nel suo senso più alto, opponendo alla cultura dell’efficienza e dell’oblio la dignità dell’affetto e dell’illusione come resistenza. Non a caso, sono centrali sia la scelta di utilizzare Lemmon (ossia l’”americano” per eccellenza di un certo cinema classico) e spaesarlo, riducendolo quasi a un relitto in un’Italia (sineddoche di Europa) che lo osserva come un simbolo svuotato del proprio sogno di modernità, sia quella di affiancargli per contrasto Mastroianni, portatore “tricolore” di un umanesimo stanco ma ancora capace di empatia. 

Una figura che incarna l’altra faccia del disincanto: non quella del fallimento del progresso, ma quella di una sopravvivenza affettiva e civile in un mondo che ha smesso di credere alle proprie utopie. In Maccheroni, la commedia tenta così di diventare il linguaggio con cui il regista riesce a parlare ancora una volta del fallimento del secolo breve senza disperarsi: la risata come sopravvivenza, la menzogna come strumento di verità. È un film sul bisogno di credere, anche quando la vita ci ha insegnato a non farlo più: ed è proprio in questo equilibrio fragile che va oggi ricercata, con benevolenza, la sua importanza nel corpus dell’autore. 

23 ottobre 2025

23 ottobre 2025

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