Home / Spettacoli / Tullio Solenghi: «Iniziai con Grillo. Il Vaticano si infuriò per il mio San Remo, l’Iran per Khomeini. Domenica In? Una tortura. Mi manca la telefonata con Anna Marchesini»

Tullio Solenghi: «Iniziai con Grillo. Il Vaticano si infuriò per il mio San Remo, l’Iran per Khomeini. Domenica In? Una tortura. Mi manca la telefonata con Anna Marchesini»

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Le proteste del Vaticano per San Remo (inteso proprio come santo), quelle islamiche per Khomeini, quelle albanesi per Striscia la Berisha. Tullio Solenghi nella sua carriera non si è fatto mancare niente.

San Remo al Festival?
«Tutti hanno condotto Sanremo, ma San Remo — il santo — l’ho fatto solo io, con tanto di aureola e con il remo in mano. Purtroppo per me, quell’anno in gara c’era Christian e la mia predica iniziava così: con Christian per Christian in Christian. Quella partenza ha avvelenato il clima, in Vaticano non la presero benissimo».

Ai tempi dell’Irangate l’Ayatollah Khomeini (interpretato da lei) e la madre Sora Khomeines (Marchesini) si lamentavano con Reagan (Lopez) per la cattiva qualità delle armi.
«Rimasi stupito dal clamore di quella parodia. Chi andava a pensare che per uno sketch avrebbero espulso tre diplomatici e richiamato l’ambasciatore a Roma. Due o tre anni dopo ci consegnarono un premio e Prodi — allora ministro dell’Industria — si avvicinò e ci disse: avete fatto lo sketch più costoso della storia della tv. Perché l’Iran doveva all’Italia non so quanti miliardi di commesse e continuava a procrastinare il pagamento, usandoci come capro espiatorio».

Lei e Gene Gnocchi avete impersonato i trasandati conduttori di «Striscia la Berisha», versione albanese e dimessa del tg satirico. Vi accusarono di razzismo.
«A un certo punto Ricci decise di sospenderla per le continue proteste di un comitato che diceva di parlare per voce degli albanesi. Ma l’anno dopo venne una troupe da Tirana a fare un servizio su Striscia e ci chiesero come mai fosse stato interrotta: non era razzista, era solo divertente».

In principio è stato il teatro classico, sette anni di testi impegnati: come arriva l’illuminazione sulla via del cabaret?
«Un misto di due ragioni: da una parte avevo un’orchite da Shakespeare in corso, lo avevo fatto per troppi anni, mi ero rotto le palle; dall’altra ero un adoratore di Franca Valeri e dei Gobbi, una comicità che mi rapiva».

Primo spettacolo?
«Io facevo il primo tempo e un tale Beppe Grillo, altro profugo genovese, faceva il secondo tempo».

Come era il primo Grillo?
«Esplosivo, la battuta pronta. Eravamo tutti e due sconosciuti, a volte in sala avevamo solo tre spettatori. Una sera Beppe rientrò nel camerino e mi disse: Sono contento perché abbiamo divertito il 70% del pubblico, hanno riso in due su tre».

Massimo Lopez?
«Ci siamo conosciuti a teatro e già a quel tempo condividevamo una sorta di ironia e di sguardo strabico della realtà che è poi era quello del Trio».

Anna Marchesini?
«La conobbi a Torino, dove facevamo le trasmissioni per la Svizzera italiana che erano messe in piedi con la mano sinistra per far sì che gli italiani rimanessero in Svizzera. Gli ascoltatori dovevano pensare: se questa è la comicità italiana, rimaniamo qua… Finito il lavoro eravamo rimasti in contatto: Anna ha sempre conservato una lettera che ogni tanto rileggevamo per farci qualche risata».

Cosa diceva la lettera?
«Le scrivevo che se mi fosse ricapitata un’occasione lavorativa importante, l’avrei chiamata per ristabilire quell’alchimia. Lei stava facendo doppiaggio con Massimo e quindi il cerchio si chiuse: li radunai a Genova e da lì partì Il Trio. Prima con 52 puntate in radio, che fu proprio la nostra palestra importante, fondamentale. E poi con la televisione».

Due uomini e una donna.
«Non c’era la donna del Trio, avevamo tutti lo stesso sesso, non c’era nessun tipo di disparità, non c’era bisogno di quote rosa».

Prendevate le decisioni a maggioranza?
«No, vigeva una legge ancora più severa, doveva esserci il plebiscito. Tre su tre. Credo che abbiamo buttato nel cestino centinaia di pagine perché avevano il difetto di non avere l’avallo di tutti e tre».

L’alchimia?
«Sono quelle cose non scritte che capitano raramente. Venivamo tutti e tre dal teatro, accomunati da quell’occhio strabico sulla realtà di cui parlavo prima. E poi il gusto per lo spiazzamento, per la parodia. Siamo stati anche unici nel non essere regionali, eravamo un misto perché Anna era di Orvieto, io di Genova, Massimo di Napoli: eravamo una sorta di unità d’Italia della comicità».

La svolta?
«Il primo sketch del Trio con il Lascia o Raddoppia di Mike Bongiorno (Lopez), dove Anna si ritrovava in una cabina telefonica e io dovevo rispondere a domande sul calcio, ma mi facevano vedere un film degli anni ‘50. Arrivò la telefonata di un dirigente Rai: dalla prossima puntata lo spazio del trio deve raddoppiare. Fu la prima tangibile prova del fatto che stavamo facendo qualcosa di importante».

La parodia dei «Promessi Sposi»?
«Non nacque da una nostra intuizione ma da quella di una signora che a una cena aveva rotto le scatole tutta la sera ad Anna perché facesse la cecata. Ma poi ha sfornato l’idea del secolo: I Promessi Sposi. Questa ignara signora ci ha dato lo spunto per fare la cosa per cui ancora oggi la gente ci ricorda».

Lo scioglimento?
«Lo spunto è partito da Massimo, dopo 12 anni la creatività si era allentata, avevamo difficoltà a trovare spunti e idee».

È sempre meglio quando ti dicono rimani piuttosto che quando ti dicono vattene.
«Abbiamo pensato che era meglio evitare quei finali decadenti che hanno spesso i grandi. Così abbiamo staccato la corrente. Massimo ha accelerato questa decisione».

Il giorno professionale da rivivere?
«Eravamo a Lecce per uno spettacolo e mi arrivò la telefonata del funzionario Rai che mi comunicava l’indice d’ascolto dei Promessi Sposi. Mi disse i numeri al contrario e si fermò al 4. Solo 4 milioni e mezzo, pensai. Oggi festeggi, ma allora era un flop. Solo che dopo una pausa che mi sembrò eterna aggiunse un numero: erano 14 milioni e mezzo. Credo che il mio urlo l’abbiano sentito non solo in tutta la Puglia ma in tutta Italia».

Una giornata da cancellare?
«Alcuni pomeriggi di Domenica In quando alla fine c’era il giochino al telefono per trovare la parola misteriosa. Per me che venivo dal teatro, abituato a spaccare il capello non in quattro ma in sedici, era una tortura. Lì ho sofferto, era avvilente».

Da tre anni porta in scena Gilberto Govi.
«È un orgoglio ligure, un iniziatore della specie di tutti gli attori comici genovesi che mi aveva colpito dai tempi del Carosello. In scena ne riporto una sorta di clonazione per restituirlo al pubblico: dopo un’ora di trucco divento assolutamente lui».

Vegetariano tendente al veganesimo: ha precorso i tempi.
«Sono sposato con mia moglie Laura da 51 anni, mi ha convertito e grazie a lei siamo in un certo senso dei pionieri. È una questione etica: non ammetto che ci siano animali di serie A e animali di serie B; animali che ti fanno compagnia come i cani e animali che devi ammazzare come i maiali. Perché salviamo le balene e facciamo la mattanza dei tonni?».

Cosa le manca di Anna?
«La nostra telefonata quasi quotidiana. Continuavamo a vedere gli eventi, la storia della nostra esistenza, quello che ci accadeva attorno sempre con il famoso occhio obliquo del Trio».

Massimo oggi?
«Abbiamo entrambi dei fratelli naturali, ma tra di noi ci chiamiamo fratellini. La nostra complicità non si è mai esaurita».

La tv di ieri?
«Quando abbiamo iniziato la tv si faceva in sala prove, oggi se chiedi la sala prove ti portano al manicomio».

16 ottobre 2025

16 ottobre 2025

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