
DAL NOSTRO INVIATO
TEL AVIV – La scritta sulla spiaggia di Tel Aviv è grande abbastanza perché sia visibile dai finestrini ovali dell’Air Force One in atterraggio all’aeroporto Ben Gurion: «Grazie Trump», come da giorni urlano gli israeliani in piazza degli ostaggi. Per tutti loro è il presidente americano ad aver piegato Benjamin Netanyahu verso l’intesa che ha fermato il conflitto, è stato lui a costringerlo ad accantonare l’idea della guerra permanente, a permettere l’accordo che ha riportato a casa i venti ostaggi ancora in vita.
L’amico Donald abbraccia l’amico Bibi più di una volta davanti alle telecamere per dimostrare che lo considera parte della soluzione, non il problema. Rompe il protocollo e lo lascia salire con la moglie Sara sulla limousine blindata che lo porta a Gerusalemme, dove è stato invitato a parlare alla Knesset, un onore che gli era mancato durante il viaggio del 2017, al primo mandato, anche se allora portava in dono regali veri per Netanyahu: l’annuncio a venire del riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele.
Le basi
Questa volta vuol vedere implementata una pace che il primo ministro ha sempre rinviato, da qui riparte per Sharm el Sheikh dove è convinto di poter porre le basi «per l’epoca d’oro del Medio Oriente»: «Questa non è solo la fine della guerra, è la fine del terrore e della morte», scandisce. Sicuro che il suo piano in 20 punti, sfilacciato nei dettagli sul futuro di Gaza e sulla possibile nascita di uno Stato palestinese, sia sufficiente perché possa succedere. O forse non così certo visto che — fa notare il New York Times — di solito parsimonioso nelle citazioni bibliche rivolge i ringraziamenti «a Dio onnipotente, Abramo, Isacco e Giacobbe».
Su un livello più terreno elogia il lavoro diplomatico di Steve Witkoff, il suo inviato per il Medio Oriente: «Un Henry Kissinger che non lascia trapelare notizie», riferendosi al consigliere per la Sicurezza nazionale e segretario di Stato per i presidenti Richard Nixon e Gerald Ford, ammirato come negoziatore e altrettanto sospettato di passare ai media informazioni in suo favore. Menziona pure il genero Jared Kushner e la figlia Ivanka che l’hanno preceduto a Tel Aviv e l’hanno atteso sulla pista dell’aeroporto assieme ai dignitari israeliani. Kushner ha accelerato la mediazione che ha portato al cessate il fuoco applicando il metodo degli accordi finanziari e immobiliari, specialità sua e di Witkoff: «Otteniamo prima il sì, poi discutiamo delle minuzie». Dopo due anni di conflitto e la devastazione lasciata a Gaza dalle bombe le «minuzie» ammontano a 53 miliardi di dollari per la ricostruzione oltre a dover risolvere la questione di chi amministrerà i 363 chilometri quadrati da qui in avanti. Trump ammicca a Miriam Adelson, invitata d’onore: «Guardatela, così innocente e ha 60 miliardi di dollari in banca». La vedova di Sheldon, magnate dei casinò a Las Vegas, era tra gli invitati d’onore: come il marito è una grande finanziatrice dei repubblicani americani e sostenitrice di Netanyahu.
I consiglieri
In cravatta rossa d’ordinanza, il presidente continua a sviare dal canovaccio che gli hanno preparato i consiglieri. Chiama «compagno» Netanyahu, ma ammette: «Non è la persona più facile con cui avere a che fare». Deraglia ancora di più dal cerimoniale e si rivolge a Isaac Herzog, il presidente israeliano: «Ho un’idea, perché non gli offri la clemenza? A chi importa di sigari e champagne», riferendosi al processo in corso contro il premier con l’accusa di essersi lasciato corrompere in cambio di regali. Allo stesso tempo — commenta Anshel Pfeffer, corrispondente del settimanale britannico Economist — «nei 65 minuti di intervento ha stabilito un punto fondamentale, che Netanyahu non osa chiarire agli alleati di governo: la guerra a Gaza è finita, i sogni di riprenderla non si realizzeranno».
Il presidente era già intervenuto dalla Casa Bianca nelle questioni legali interne a Israele, un’ingerenza che Yair Lapid, leader dell’opposizione, lascia passare senza rinunciare a sottolineare: «Le sfide future hanno bisogno di una nuova visione», intende la sua e della sua coalizione al posto dell’estrema destra al potere.
Anche lui riconosce che Trump dovrebbe vincere il Nobel per la Pace, mentre un paio di parlamentari arabi israeliani che ricordano che quella pace si può ottenere solo con «il riconoscimento della Palestina» vengono rimossi dall’aula. All’opposto due deputati del partito di Netanyahu hanno disertato il discorso perché «questa non è una vittoria, l’intesa è una capitolazione ad Hamas».
14 ottobre 2025
© RIPRODUZIONE RISERVATA