
C’è una definizione che è rimasta sempre addosso a László Krasznahorkai, classe 1954, insignito del Premio Nobel per la Letteratura: «Il maestro ungherese dell’apocalisse». La definizione non è mai tramontata per il calibro della battezzante — la filosofa Susan Sontag, che la ideò dopo aver letto, nel 2000, il secondo romanzo dell’autore,
Melancolia della resistenza
— ma anche perché identificava in modo perfetto Krasznahorkai, e in un modo che si è ulteriormente consolidato nel quarto di secolo successivo.
Era importante dire ungherese, perché l’unicità della scrittura krasznahorkaiana va comunque considerata nel quadro del ritorno del «fronte d’onda del romanzo» nell’Europa centro-orientale; poteva essere azzardato, all’epoca, parlare già di maestro, ma venticinque anni dopo, e alla luce di ulteriori capolavori come Satantango (uscito in originale prima di Melancolia della resistenza, fu tradotto in inglese solo nel 2012), Guerra e guerra, Il ritorno del barone Wenckheim o i racconti di Seiobo è discesa quaggiù, appare persino ovvio quanto il titolo fosse meritato. Apocalisse, infine. La parola che meglio sintetizza la poetica di László Krasznahorkai. Se ne potrebbero aggiungere altre, come oscurità o desolazione, o arrivare fino ai profeti e ai messia (sempre falsi e mendaci oppure inadeguati, si capisce), ma si tratterebbe in fondo di corollari: il mondo di Krasznahorkai è oscuro e desolato perché sta finendo (o è già finito e i suoi tragicomici personaggi non se ne sono ancora resi conto? È una possibilità), e richiama falsi profeti e messia mendaci o inadeguati proprio per questo.
Già con Satantango, del 1985, romanzo d’esordio di strabiliante maturità, che venne in mente a Krasznahorkai «durante la castrazione di un maiale», in un contesto oscuro qual era il devastato crepuscolo dell’Ungheria comunista, andavano a configurarsi i suoi tipici scenari da fine dei tempi, a cui nove anni dopo Béla Tarr avrebbe dato anche una fangosa identità visiva con l’adattamento cinematografico, nell’ambito di un sodalizio durato dal 1988 al 2011, con ben cinque film scritti da Krasznahorkai e diretti da Tarr. La riflessione estetica e metafisica cominciata quasi per caso in Satantango viene poi messa a punto in Melancolia della resistenza (uscito in originale nel fatidico 1989), che per ammissione dello stesso Krasznahorkai era il tentativo di mettere a punto «tutto ciò che non era venuto bene in Satantango», tentativo a dire dell’autore nuovamente fallito e da cui è poi sgorgato tutto il resto, perché, per usare le sue parole, «da allora ho continuato a provarci. Ma sempre senza successo. Nessuno dei miei romanzi è il libro che mi ero prefissato di scrivere».
Eppure Krasznahorkai ha continuato, perché «la forza magica delle parole ha sempre prevalso sul buon senso», e sono arrivati così Guerra e guerra, nel 1999 (da noi nel 2020), Il ritorno del barone Wenkheim, nel 2016 (da noi nel 2019), e Herscht 07769 nel 2021 (2022 in Italia), più i racconti di Seiobo è discesa quaggiù (2008, 2021 in Italia) e Avanti va il mondo (2013), che per il nostro Paese è il suo libro più recente, essendo uscito nel 2024.
Una ricerca letteraria costante, oltremodo ossessiva, costruita per continue modulazioni e rimodulazioni degli stessi temi, che in Italia ha trovato casa presso Bompiani (il primo libro ad arrivare fu proprio Satantango, nel 2016, in seguito alla vittoria del Man Booker Prize International) e voce in Dórá Varnai, che ha tradotto tutti i suoi romanzi e racconti (salvo Melancolia della resistenza, tradotto da Dora Mészáros e Bruno Ventavoli), caratterizzata da frasi lunghissime, dal rifiuto deliberato di trame lineari e spiegazioni facili, e da una pertinace assenza di speranza — almeno a prima vista.
A livello di contenuti, appare evidente che László Krasznahorkai sia il figlio spirituale di Franz Kafka, cosa che ammette lui stesso — «senza Kafka non avrei mai scritto una parola» — e il discorso potrebbe essere persino allargato: in effetti, tutta la «nuova onda» dell’Europa centro-orientale appare anzitutto come il frutto della piena digestione, fino alla rielaborazione, dell’eredità di Kafka, e se il fraseggio potrebbe avvicinare Krasznahorkai a Thomas Bernhard, uno dei pochi altri autori nei cui confronti il neo-Nobel (che si è detto sorpreso e felice per il premio ma, ha aggiunto, «mi rattrista molto pensare alla situazione attuale del mondo, l’essere umano è la mia ispirazione più profonda») ha riconosciuto un debito diretto, la sua prosa non cerca nelle frasi senza fine quella sinfonicità che è propria di Bernhard e di altri austriaci, quanto piuttosto il sistema di flussi e controflussi del mondo naturale, non però incontaminato, bensì sporcato, violato e in ultimo profanato dalla presenza umana, parola inclusa.
Seguendo tuttavia il percorso letterario del neo-Nobel, notiamo che il «maestro ungherese dell’apocalisse» ha sempre avuto una stella polare, sia pur nella più nera oscurità, e quella è stata la pietas. Non ci sarà speranza in generale, ma c’è sempre una speranza nel particolare, e questa speranza è costituita dalla possibilità di un’empatia tra singoli umani. Un’idea che in qualche modo ha preso sempre più spazio nei suoi romanzi: se in Satantango e Melancolia della resistenza il tasso di speranza è molto vicino allo zero, e per quanto si possa sentire un’eco beffarda sottotraccia, bisognerebbe essere dei perversi per ritenerli romanzi divertenti, è evidente che in Guerra e guerra, Il ritorno del barone Wenkheim e Herscht 07769 il tasso di ironia aumenta progressivamente, e con essa si concretizza anche una vaga fiducia nell’umano, sia pur sempre carica di disillusione. In tutti e tre i romanzi si ridacchia (senza essere dei perversi), e anzi Herscht 07769 può essere persino considerato un romanzo comico.
«Questo premio — ha detto il Nobel ai suoi editori — dimostra che la letteratura esiste di per sé, al di là di tutte le aspettative non letterarie, e che viene ancora letta. E a quelli che la leggono infonde una certa speranza nel fatto che la bellezza, la nobiltà e il sublime ancora esistono in sé e per sé. Può dare speranza anche a coloro nei quali la vita è viva appena». Dio resta morto, spenti sono ancora il sole e la luna, l’umano si è guardato nello specchio di una pozzanghera nel fango e si è scoperto cadavere o mostro, ma una piccola luce, una puntura di spillo nel cielo nero da cui filtra qualcosa, si è aperta, e pare pure volersi allargare (non troppo, sia chiaro…). Sprazzi di luce che risultano forse ancora più evidenti nei racconti, e che liberano László Krasznahorkai dalla pur facile accusa di essere uno scrittore esiziale, foriero di un’arte il cui compito è semplicemente chiudere il sipario: il «maestro dell’apocalisse» è tale proprio perché riesce a vedere oltre il crepuscolo degli uomini e quello degli dèi. Lo fa senza far sconti e senza vendere facili illusioni? Dicendo chiaro e tondo che la speranza è sì possibile ma è sempre minuscola e flebile, difficile da trovare e ancor più difficile da mantener viva? Senza dubbio: ma è proprio tale atteggiamento che lo rende l’autore perfetto per i tempi che corrono, in cui la crisi in ogni forma e ambito è lo stato ordinario in cui viviamo, e l’assenza di prospettive visibili sul lungo termine l’orizzonte in cui si svolgono tutte le nostre giornate.
9 ottobre 2025 (modifica il 9 ottobre 2025 | 21:45)
© RIPRODUZIONE RISERVATA
9 ottobre 2025 (modifica il 9 ottobre 2025 | 21:45)
© RIPRODUZIONE RISERVATA