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Morta Jane Goodall, la pioniera che amava e capì gli scimpanzé

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Ci ha lasciato la regina della primatologia, una scienziata innamorata della natura come madre della diversità e maestra di convivenza. Aveva cominciato in Kenya incontrando Louis e Mary Leakey, i cacciatori di fossili umani che hanno posto le basi per la ricostruzione paleontologica del nostro albero genealogico e delle molte ramificazioni africane del genere Homo.

L’avevano mandata in Tanzania nei primi anni Sessanta, nel parco nazionale del Gombe Stream, all’epoca una riserva, per studiare il comportamento degli scimpanzé nel loro ambiente, e non in un giardino zoologico. La domanda di ricerca era pionieristica e darwiniana: comprendere i nostri cugini più stretti, con i quali condividiamo un antenato comune vissuto in Africa intorno a sei milioni di anni fa, per cogliere analogie e differenze.

Quella donna bellissima e tenace, in mezzo a una comunità scientifica tutta maschile, iniziò una ricerca sul campo, fatta di lunghe e attente osservazioni, che ben presto la porterà a immergersi in un mondo sociale alternativo al nostro, e a disinteressarsi francamente dei tentativi di garantire all’animale umano un’eccezionalità. Chiamò per nome i suoi scimpanzé e seppe coglierne le personalità individuali, un’idea oggi patrimonio di tutti e ben presente nella letteratura scientifica, ma a quel tempo pressoché eretica.

Si fece accogliere dagli scimpanzé, che impararono a tollerare la sua presenza discreta. Con la pazienza certosina della naturalista, vide e registrò scene memorabili, che cambiarono per sempre la nostra immagine degli scimpanzé. Ne vide alcuni selezionare con attenzione alcuni ramoscelli, liberarli dalle foglie e usarli per pescare le termiti dai loro buchi. Era la manipolazione intenzionale di un oggetto, una tecnica, imparata e trasmessa, con modificazioni. In una parola: cultura; una cultura non umana.

Ben prima che si calcolasse la stretta parentela genetica fra noi e gli scimpanzé (che supera il 98 per cento), Jane Goodall comprese che quella cuginanza evolutiva era in primo luogo sociale e comportamentale: spulciamenti, smorfie, posture, giochi, scherzi, abbracci, complesse relazioni familiari e gerarchiche, vocalizzi, alleanze, amicizie, conflitti. Senza alcuna idealizzazione romantica, perché la natura è ambivalente ed è sempre un errore usarla come criterio morale.

Vide scimpanzé cacciare con ferocia e determinazione strategica altri piccoli primati, per poi smembrarli e sbranarli in gruppo. Lei era vegetariana (e acerrima nemica degli allevamenti intensivi), i suoi scimpanzé no.
Divenuta ormai una celebrità pluripremiata dell’etologia britannica, registrò le lotte tra maschi per il potere e le sottili arti diplomatiche delle matriarche. Non poté non vedere che i cuccioli dei rivali sono spesso vittime designate. Oggi sappiamo che gruppi di maschi talvolta aggrediscono altri gruppi in modo premeditato e possono ucciderne i piccoli. Infanticidio e cannibalismo fanno parte del repertorio comportamentale dei nostri parenti più prossimi.

Chimerici insomma, brutali e gentili, proprio come noi. A Jane Goodall stava soprattutto a cuore che i suoi scimpanzé potessero essere ancora osservati dalle generazioni di giovani scienziate e scienziati che ha ispirato in decenni di ricerche e divulgazione. I loro habitat infatti sono ovunque minacciati e depredati, le loro popolazioni sempre più isolate e deboli. E così, la ricchissima eredità di Goodall include anche l’Istituto che porta il suo nome e che da mezzo secolo, in più di 25 Paesi, lotta per la conservazione della biodiversità e per la salvaguardia delle grandi scimmie, sempre tenendo ben focalizzata l’attenzione sull’educazione delle comunità locali e sullo sviluppo sociale ed economico dei popoli che vivono in quelle aree. Non c’è salvezza per gli scimpanzé senza giustizia e benessere per gli umani che convivono con loro.

Grazie alla sua infaticabile azione per l’ambiente, sono nati santuari per la protezione di questi animali, progetti di riforestazione, campagne di sensibilizzazione sugli effetti del riscaldamento climatico antropico. La parola che ricorre di più nei suoi libri è speranza. Chi ha avuto il privilegio di incontrarla non potrà mai dimenticare la calma determinazione che traspariva dai suoi occhi, insieme all’amore puro per l’Africa, da dove tutti veniamo.

1 ottobre 2025 (modifica il 1 ottobre 2025 | 22:32)

1 ottobre 2025 (modifica il 1 ottobre 2025 | 22:32)

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