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Un’altra Lisa nel mirino di Trump, che chiede a Microsoft di licenziare la top manager indesiderata

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Un’altra Lisa nel mirino di Donald Trump, dopo Lisa Cook della Fed. Ma da quando un presidente degli Stati Uniti detta a un’azienda privata chi assumere o licenziare? L’ultimo caso è l’intimidazione a Microsoft: Donald Trump ha chiesto su Truth Social il licenziamento “immediato” di Lisa Monaco, nuova responsabile per gli affari globali ed ex vice ministra della Giustizia sotto Biden, invocando motivi di sicurezza nazionale. Microsoft non ha commentato. Il punto non è il dissenso politico: è l’intervento diretto del capo dell’esecutivo nell’organigramma di una società quotata.

Non è un episodio isolato. Ad agosto Trump ha preteso le dimissioni del ceo di Intel, Lip-Bu Tan, per presunti legami con la Cina; poche settimane dopo, la Casa Bianca ha annunciato un accordo che prevede una partecipazione pubblica intorno al 10% nel capitale di Intel, alimentata da fondi già stanziati. Prima l’attacco personale, poi l’ingresso azionario pubblico nella stessa azienda.

Lo schema tocca anche istituzioni indipendenti. Il 1° agosto la Casa Bianca ha rimosso la commissaria del Bureau of Labor Statistics, Erika McEntarfer, all’indomani di dati occupazionali deludenti, sollevando allarmi sull’indipendenza statistica. E ora l’amministrazione chiede alla Corte Suprema di autorizzare la rimozione della governatrice della Federal Reserve Lisa Cook, dopo che il presidente l’ha licenziata con un ordine esecutivo a cui Cook si opposta, vincendo (pr ora) il ricorso. Un caso senza precedenti che investe l’autonomia della banca centrale.

Che tecnologia e semiconduttori siano materia di sicurezza nazionale è fuori discussione; ma una cosa è una politica industriale discussa e verificabile, un’altra è passare da invettive personali sui social a decisioni di investimento prese sull’onda del clamore o di richieste e imposizioni inedite. Un altro esempio recente: il via libera condizionato alle esportazioni di alcuni chip verso la Cina in cambio di un prelievo del 15% sulle vendite di alcuni chip di Nvidia e AMD. Qui il rischio è duplice: incertezza regolatoria per le imprese e normalizzazione di prassi discrezionali che erodono quella «rule of law» da cui discende la credibilità economica americana.

Ma quando decisioni pubbliche e pressioni sulle imprese si incrociano con interessi politico-personali, specie in settori volatili come le cripto-valute, si apre anche un tema di conflitto di interesse. Le iniziative cripto riconducibili alla famiglia Trump hanno generato incassi ingenti tra la vendite di token/Nft e la piattaforma World Liberty. Mentre le giravolte improvvise del presidente sui dazi hanno fatto guadagnare miliardi in Borsa – di cui Trump si è vantato pubblicamente – ai suoi amici investitori.

Se l’opposizione non morde, c’è un termometro immediato del clima: i mercati valutari. Dall’inizio dell’anno il dollaro ha già perso fra il 9% e l’11% contro un paniere di valute (circa il 13% sull’euro), complice anche l’incertezza generata da tariffe e pressioni politiche sulla Fed. La svalutazione segnala un progressivo deterioramento della fiducia nei confronti della moneta di riserva per eccellenza. Se l’economia diventa il prolungamento della politica personale, però a pagare non saranno solo le aziende nel mirino del giorno, a perdere sarà la credibilità degli Stati Uniti.

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27 settembre 2025

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