
Un sorriso sincero, una flebo, qualche parola: «È un momento bellissimo quando alla fine di una infusione (la mia ventitreesima!!) ti portano il budino al cioccolato». È il compositore Giovanni Allevi in un post su Instagram. Ogni volta — da tre anni, da quando gli hanno diagnosticato un mieloma —, stupisce la sua forza.
Era molto felice quando le hanno portato il budino al cioccolato?
«Molto. Per me è una vera festa».
Ventitré infusioni sono tante. Come ci si arriva?
«Partiamo da dove mi trovo: sono a casa sul letto, sotto il piumone che guardo dalla finestra l’autunno che arriva, col sorriso stampato sotto l’effetto di quella infusione. È un farmaco potente ed efficace per la cura delle ossa».
Parliamo di chemioterapia?
«No, non è un farmaco chemioterapico, è un’altra cosa. Mi fa stare male per 10 giorni, sbarellato direi, come se avessi la febbre e anche il dolore alle ossa aumenta. Ma l’effetto è quello di rinforzare il tessuto osseo».
E come si riesce a sorridere?
«Qui si apre questione filosofica perché quando entri dentro questa bolla di esistenza nuova, determinata dalla malattia, hai due possibilità: cedere alla disperazione o resettare tutto e guardare alla vita col sorriso, nonostante il dolore e la paura. Io ho scelto questa seconda strada».
Dove si trova la forza?
«È una forza che ricevo anche dagli altri pazienti in quello che per me è un luogo sacro: la sala di accettazione all’Istituto dei tumori. Una stanza grandissima con tanti guerrieri. Ci aiutiamo, ci abbracciamo».
Quindi quando entra in ospedale non ha mai la repulsione?
«No, è la mia seconda casa. Può farti paura ma poi ti accorgi che l’ospedale ti salva la vita. Lì trovo coraggio e forza, il talento dei medici e la grande professionalità del personale ospedaliero».
Quando esce da lì, cosa si porta dietro?
«Faccio il pieno di umanità, adesso che vivo come non ci fosse un domani».
Quando si incontra la malattia si rivedono le priorità. È così?
«Sì. Quando sono diventato famoso avevo l’ansia, avevo bisogno del riscontro esterno. Siamo tutti avvelenati da questa logica, ma la malattia ha spazzato via questo meccanismo. Ora ho lo stesso entusiasmo di quando ero adolescente e di quando facevo un concerto davanti a 15 persone ed ero felicissimo».
Riesce a pensare al futuro?
«Secondo le statistiche io ho davanti due anni ancora, ma prometto che festeggerò i 95 anni, perché non credo alle statistiche.
Vive intensamente il presente?
«In questi 3 anni mi sono chiesto cosa significhi vivere pienamente. Fare tutto il possibile nel poco tempo che mi è rimasto? No, significa vedere tutto e vivere tutto con uno sguardo diverso, focalizzare l’attenzione sul presente senza che sia inquinato da aspettative future e da ricordi del passato. Quando riesco a sentire che ogni secondo che mi viene dato è un miracolo allora sì sto vivendo pienamente il presente».
Le capita di rado o spesso?
«Spessissimo. Quando esco a camminare sui Navigli, e lo faccio per accogliere il mal di schiena, mi abbraccio tutti per strada».
Il momento più duro di questi tre 3 anni?
«Il momento della diagnosi è devastante, crollano tutte le certezze e si sperimenta una solitudine profonda, abissale. Non c’è parola che ti possa confortare, ma la dottoressa che mi ha comunicato la diagnosi ha aggiunto una frase che è stata un’àncora alla quale mi sono attaccato: “La diagnosi è il primo passo verso la guarigione”».
La sente ancora quella solitudine?
«Con questo tipo di malattia si fa esperienza della solitudine però si fa esperienza anche della gratitudine e vicinanza di familiari e altri pazienti. Il mondo contemporaneo ha demonizzato la solitudine e il silenzio, invece sono dimensioni che ci permettono di ritrovare un contatto profondo che con la sorgente vitale che è dentro ognuno di noi».
Ad ottobre verrà presentato alla Festa del Cinema di Roma, «Allevi – Back to Life» (nei cinema dal 17 novembre, con l’uscita anche della colonna sonora), un docufilm del suo «ritorno alla vita».
«Da tempo c’era l’idea di realizzare un documentario sulla mia esperienza artistica ma non ero convinto perchè negli ultimi anni mi sento come fossi un gatto sotto la credenza. Non volevo e non voglio espormi e neppure spiegare la mia figura artistica che tante volte è stata divisiva. Però poi la malattia mi ha catapultato in un’altra dimensione e ho capito che questo film possiede una forte valenza sociale. Allora vale la pena uscire da sotto la credenza».
Per dare coraggio?
«Sì. Il mio sogno è che lo spettatore esca dalla sala con il cuore traboccante di gioia di vivere, e abbracci la prima persona che gli capiti davanti».
La scorsa estate è tornato in pubblico a dirigere «Concerto per violoncello e orchestra MM22», un’opera composta da lei in ospedale. E questo film è un viaggio tra musica, arte, ospedale.. La storia della sua malattia che si fonde con sua vita artistica
«Dal primo giorno di ricovero ho cominciato a comporre un’opera che avrei diretto se fossi sopravvissuto. Ho voluto ripercorrere in musica tutte le emozioni che ho provato in quella stanza di ospedale: angoscia, speranza, gioia sfrenata, tensione verso l’infinito. Ho deciso poi di portare le telecamere in sala prove, e in ospedale, e ai concerti. Questa è l’ossatura del docufilm».
Andrà a vedersi al cinema?
«Sì. E poi tornerò sotto la credenza».
27 settembre 2025
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