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Ambientalismo cinese, dilemma europeo

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Non c’era bisogno dell’assemblea Onu per averne conferma: la divergenza America-Cina nella strategie energetiche è sempre più ampia. Xi Jinping propone al mondo la sua versione della «rivoluzione verde». Donald Trump torna a privilegiare le energie fossili. In mezzo ci sta l’Unione europea, in una posizione non facile. Infatti bisogna guardare la realtà in faccia, usando i criteri realistici della «geoeconomia»: le due maggiori superpotenze stanno valorizzando, ciascuna dalla propria parte, i rispettivi punti di forza.

L’Europa soffre per un divario tra aspirazioni e realtà. In questa contesa non ha dei veri punti di forza da esaltare, solo delle vulnerabilità.

Nella storia il controllo delle risorse essenziali è sempre stato un fattore cruciale per assicurarsi il «quadrilatero magico» su cui poggia la forza degli imperi (tecnologia e armi; moneta universale; ricchezza demografica; materie prime scarse). Lasciamo da parte per il momento la questione del cambiamento climatico e gli slogan sul pianeta da salvare – temi sui quali l’impatto della Cina è molto meno angelico di quanto Xi voglia farci credere – quel che conta è la logica della sicurezza, dell’autosufficienza, quindi del dominio, della supremazia. 

La Cina se l’è conquistata in quasi tutte le tecnologie che chiamiamo verdi, sostenibili, ambientaliste: ora intende sfruttare fino in fondo questo suo semi-monopolio. L’America è il numero uno mondiale delle energie fossili: in base alle regole della geoeconomia sarebbe puro autolesionismo non sfruttare questa sua forza. Del resto va ricordato che l’America raggiunse l’autosufficienza energetica grazie alla rivoluzione tecnologica del fracking e dello shale gas sotto la presidenza di Barack Obama, il quale ne menava gran vanto, nello stesso periodo in cui aderiva solennemente agli accordi di Parigi sulla lotta al cambiamento climatico; né il Green Deal di Biden ha mai rimesso in discussione l’importanza di quell’autosufficienza fossile. 

Il vaso di coccio è l’Europa: vorrebbe continuare ad essere più verde degli Stati Uniti, ma allo stato attuale questo significa consegnarsi a una dipendenza pressoché totale verso la tecnologia cinese.

Una sintesi di dati e notizie emersi in queste giornate sullo sfondo dell’assemblea Onu serve ad aggiornare il quadro. Negli Stati Uniti un reportage del Wall Street Journal segnala un segnale eloquente, che arriva da un enorme capannone da 1,3 milioni di piedi quadrati alle porte di Denver. Doveva ospitare una fabbrica di batterie, celebrata dal governatore del Colorado Jared Polis come un investimento per «alimentare il futuro». Invece è rimasto vuoto. 

Amprius Technologies, la società californiana che aveva annunciato l’impianto, ha deciso di abbandonare il progetto. Il suo amministratore delegato, Kang Sun, ha ammesso che il know-how americano nel settore batterie è ancora in fase di sviluppo, mentre altri paesi hanno costruito industrie mature ed efficienti. Non a caso, tre dei quattro produttori cui Amprius affida la produzione delle sue batterie per droni, biciclette elettriche e forse un giorno automobili, si trovano in Cina. 

È un’immagine simbolica della ritirata americana da una delle industrie decisive per l’economia globale di domani.
Il passo indietro degli Stati Uniti va ben oltre i casi singoli. La nuova legge fiscale di Trump sta esaurendo più di 400 miliardi di dollari di sussidi destinati alle rinnovabili. Le agenzie federali hanno inasprito le regole per lo sviluppo di nuovi progetti e il governo ha cancellato una garanzia di prestito multimiliardaria per una linea di trasmissione nel Midwest, ha bloccato un parco eolico offshore ormai completato quasi del tutto al largo del Rhode Island e ha eliminato 3,7 miliardi di dollari di fondi destinati a tecnologie per la riduzione delle emissioni industriali. 

Le conseguenze si vedono negli investimenti: nel secondo trimestre, per la prima volta, le aziende hanno cancellato più progetti di manifattura green di quanti ne abbiano annunciati, secondo uno studio del Massachusetts Institute of Technology e del Rhodium Group. Gli investimenti in elettricità pulita sono crollati del 51% rispetto al trimestre precedente. L’associazione E2 ha calcolato che nel primo semestre sono stati cancellati o rinviati progetti nel settore dei veicoli elettrici, delle batterie, del solare e dell’eolico per un valore complessivo di 22 miliardi di dollari.

L’amministrazione Trump, anziché sostenere la transizione, ha scelto di rilanciare petrolio e gas. Washington ha esercitato pressioni su partner europei e asiatici perché comprassero gas naturale liquido (LNG) americano per evitare dazi più elevati e il Dipartimento dell’Energia ha annunciato 200 miliardi di dollari in garanzie di prestito per infrastrutture energetiche, comprese quelle legate al carbone. Nel frattempo, le previsioni per il mercato interno dei veicoli elettrici sono peggiorate drasticamente: nel 2030 dovrebbero rappresentare il 27% delle vendite di automobili passeggeri, contro il 48% stimato solo un anno fa. Gli Stati Uniti restano i primi produttori mondiali di petrolio e gas.

La Cina percorre la strada opposta. Nei primi sette mesi del 2024 ha installato 277 gigawatt di capacità eolica e solare, quattro volte le nuove aggiunte utility-scale previste dagli analisti federali americani per l’intero 2025 su tutte le fonti energetiche. La sua supremazia manifatturiera si traduce in una quota globale superiore al 75% nella produzione di batterie e moduli solari, con una leadership che si estende lungo l’intera catena di valore: polisilicio, wafer, celle, moduli, catodi e anodi per batterie, componenti eolici. 

Un pannello prodotto in Cina costa il 65% in meno rispetto a uno americano. Colossi come BYD hanno superato Tesla nelle vendite di auto elettriche, mentre CATL investe oltre 2,6 miliardi di dollari all’anno in ricerca e sviluppo con più di 20.000 ricercatori. Quasi metà delle automobili vendute in Cina sono elettriche o ibride plug-in, e nel primo semestre le emissioni sono calate dell’1%. L’eccesso di capacità produttiva spinge verso l’export: nel 2024 Pechino ha esportato circa 1,3 milioni di veicoli elettrici, con un aumento del 25% su base annua.

Questo squilibrio industriale ha implicazioni dirette per l’Europa. Molti grandi progetti solari e impianti di batterie nel continente dipendono da componentistica cinese. La Commissione europea ha avviato iniziative per ridurre i rischi: dai filtri e controlli sugli investimenti esteri all’Anti-Coercion Instrument, passando per piani di sostegno alla manifattura europea di pannelli e batterie. Ma nel breve termine, la realtà è che l’Unione non ha alternative. 

Il deputato europeo Bart Groothuis ha espresso timori concreti sul rischio che inverter cinesi possano essere controllati da remoto e usati come armi di interferenza nelle reti elettriche europee. Nel frattempo, i consumatori vedono arrivare sul mercato auto elettriche cinesi a basso costo, sempre più competitive rispetto ai modelli europei. Aziende come BYD hanno già superato Tesla in mercati extraeuropei, e la penetrazione dei loro veicoli cresce anche nell’UE.

Bruxelles mantiene un atteggiamento ambivalente: da un lato beneficia di prezzi più bassi che facilitano la transizione, dall’altro teme una dipendenza strategica che riduca l’autonomia del continente. Gli Stati Uniti, con le loro barriere tariffarie, hanno scelto il protezionismo. L’Europa non dispone di una protezione doganale simile e rischia di vedere compromessa la competitività della sua industria automobilistica.

Cina e America ciascuna a modo suo stanno puntando sui punti di forza rispettivi. Nel caso cinese le implicazioni della strategia energetica sono anche militari. Ancora oggi, la Cina essendo il primo acquirente mondiale di petrolio, le rotte navali dal Golfo Persico traversano alcune «vene giugulari» dove la superiorità della US Navy può strangolare gli approviggionamenti cinesi: i due Stretti di Hormuz e Malacca. I dirigenti di Pechino hanno sempre saputo che questa era una asimmetria fatale in caso di conflitto: l’America ha in casa propria tutta l’energia che le serve; la Repubblica Popolare deve ancora riceverne tanta dal Medio Oriente, un «rubinetto» che le forze armate Usa sono in grado di chiudere. Con la sua transizione al solare, eolico, e naturalmente la poderosa espansione del nucleare, Xi ha in mente prima di ogni altra cosa un obiettivo di sicurezza nazionale.

25 settembre 2025

25 settembre 2025

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