
Il 24 settembre 1975 (da noi nelle sale a dicembre) si tiene a New York la première di I tre giorni del Condor/Three Days of the Condor di Sydney Pollack, opera-cardine del cinema “paranoico” Usa anni Settanta idealmente inaugurato l’anno prima da La conversazione/The Conversation di Coppola e proseguito quello dopo da Tutti gli uomini del presidente/All the President’s Men di un altro gigante come Alan J. Pakula. Il film è tratto dal quasi omonimo romanzo di James Grady I sei giorni del condor (la sceneggiatura di Lorenzo Semple jr accorciò i tempi per aumentare l’efficacia drammatica) e incrocia il thriller a una riflessione amara sui meccanismi del potere e sulla fragilità del singolo di fronte alle istituzioni.
Il racconto è imperniato sulla fuga dell’analista CIA Joseph Turner detto “Condor” (Robert Redford) che diventa bersaglio di un apparato deciso a proteggere segreti inconfessabili. A Manhattan, dove lavora in un ufficio adibito a scovare trame e codici nascosti in libri e riviste di tutto il mondo, l’uomo si salva infatti casualmente dal massacro di tutti i suoi colleghi; e da quel momento si ritrova braccato da Joubert (Max von Sydow), glaciale killer alsaziano, in un clima caratterizzato da insicurezze, pedinamenti e agguati. Trova rifugio forzato nell’appartamento di Kathy Hale (Faye Dunaway), una donna qualunque che, dapprima ostile, finirà per aiutarlo; e indagando per proprio conto scopre che dietro la strage si nasconde un’operazione deviata all’interno della CIA, ideata dal funzionario Leonard Atwood (Addison Powell), che proprio un suo rapporto aveva messo in luce. Mentre Turner cerca di ottenere risposte dal vicedirettore Higgins (Cliff Robertson), passo dopo passo ricostruisce la catena di responsabilità: ma alla resa dei conti nel Maryland, dopo che Atwood avrà confessato e verrà ucciso da Joubert, diventerà troppo scomodo e anch’egli passibile di eliminazione. Basterà a salvarlo l’aver consegnato il suo resoconto al New York Times?
Pollack, all’epoca maestro di un cinema liberal al contempo popolare ed esplicitamente politico, alla sua quarta collaborazione con il leggendario Redford (ne seguiranno altre tre tra le quali il celeberrimo La mia Africa/Out of Africa, 1985), orchestra un incubo sottile che unisce atmosfere metropolitane, ritmo da spy movie (l’unica candidatura all’Oscar ricevuta dal film fu per il magistrale montaggio di Fredric Steinkamp e Joe Giudice) e inquietudine politica di chiara marca post-nixoniana (erano gli anni della presidenza repubblicana Ford), affidandosi al dualismo Redford/von Sydow per incarnare la visione simbolica della lotta tra l’Individuo che cerca la verità e il Sistema che non esita (con triste parallelismo contemporaneo) a sacrificare pedine. Il cuore del discorso risiede nella trasformazione del protagonista da “intellettuale” marginale e ingenuo a uomo costretto a confrontarsi con la brutalità del Potere. E la corsa disperata del “Condor” attraverso Manhattan non è solo fuga “fisica”, ma immersione simbolica nella paranoia di un paesaggio urbano che diventa labirinto e metafora del disorientamento di un’intera nazione. Pollack, col superbo operatore Owen Roizman, riduce infatti la città a spazio di psicosi e allucinazione complottista, tra telefoni che non garantiscono comunicazioni sicure, appartamenti facilmente violati, strade anonime percorse da inseguitori invisibili e palazzi che sembrano perfino “osservare” chi vi transita: ogni angolo urbano diventa potenzialmente ostile, mentre il film si sottrae progressivamente alla logica fantasiosa della fiction spionistica per restituirsi alla cupezza realistica di una quotidianità che cela persecuzione e violenza. Con audacia ideologica, la CIA viene smontata e deprivata della sua aura di baluardo della difesa nazionale e rappresentata come cellula di un organismo superiore che trama nell’ombra, manipola e agisce al servizio di interessi economici ed energetici (in particolare legati al petrolio: tema che all’epoca era di bruciante attualità), anticipando paure e inquietudini che si sarebbero rivelate profetiche; e delineando la progressiva sostituzione degli ideali con calcoli di convenienza geopolitica di cui è inutile sottolineare le odierne conseguenze.
Ma a rendere ancor più memorabile il tutto è il rapporto con Kathy, la donna che Turner “rapisce” e poi conquista alla sua causa, che introduce un ulteriore elemento di ambiguità: la loro relazione, segnata da sfiducia e attrazione (con una delle sequenze “d’amore” più belle mai filmate a Hollywood) è metafora della difficoltà di stabilire legami autentici in un contesto dominato dal sospetto; e Faye Dunaway, controllata e malinconica, non solo trasmette l’immagine di una donna catturata in una rete più grande di lei e incerta se credere o meno al racconto del fuggitivo, ma incarna anche la dialettica naturale tra intimità e diffidenza. Al margine di questo nucleo emotivo, con uno straordinario controllo del contrasto, incombe la figura dell’assassino Joubert, ingranaggio impersonale che sublima per metafora l’orrore della normalizzazione della violenza e che nel suo dialogo “filosofico” con Turner suggella l’idea che il Potere, per sopravvivere, possa ricorrere a ogni mezzo senza più interrogarsi sulla legittimità delle sue azioni. Tutta materia ancor attuale (e veggente), che il linguaggio del film esalta mantenendo lo spettatore in uno stato d’ansia costante (incalzato dalla colonna sonora di Dave Grusin, un jazz rarefatto che pantografa il senso di sospensione), sottolineando allora come oggi lo statuto perverso di un’America minacciata dai propri stessi apparati di potere, dagli organismi che dovrebbero tutelarla e che invece agiscono per interessi “privati” o tornaconti ancor più meschini.
In questo senso, I tre giorni del Condor resta un atto d’accusa contro l’illusione di trasparenza democratica: con quel finale in cui Turner affida la verità alla stampa, ma rimane nel dubbio se verrà davvero pubblicata, che è un atto di sfiducia radicale in cui la semplice e ambigua domanda dello scambio conclusivo (“Sei sicuro che lo stampano?”) assume oggi, nell’era delle fake news, delle manipolazioni informative e del sospetto permanente verso le fonti ufficiali, la potenza di un monito sulla fragilità di ogni possibile “verità”. Redford attraversa il film, lo innesca, lo sostiene e lo innerva con il suo passo nervoso, le sue falcate da corridore, il suo carisma limpido, incarnando la paura e il dubbio di un’intera generazione sospesa tra il sogno di libertà e l’incubo della sua privazione. E gran parte del “suo” cinema (che fu bellezza, impegno, eleganza morale, lezione di dignità e di resistenza capace di rimanere viva oltre il tempo) passa necessariamente di qui.
25 settembre 2025
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