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Perché esistono realtà come «Mia moglie» e non come «Mio marito»? Viaggio nel «cervello arcaico» dei maschi

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Interrogarsi sulle ragioni che portano tanti uomini a condividere, come nei noti gruppi online «Mia moglie» o «Phica», immagini di donne sessualizzate non può prescindere da una riflessione che ci aiuti a comprendere perché certi comportamenti siano generati quasi esclusivamente da uomini. Perché, per esempio, ha avuto così successo “Mia moglie” (oltre 32mila iscritti) mentre è difficile che esista un corrispettivo al maschile? Silvia Bonino, professoressa di Psicologia dello sviluppo e dell’educazione all’Università di Torino e autrice di «Amori molesti – Natura e cultura nella violenza di coppia» (ediz. Laterza), spiega al Corriere che per rispondere è necessario innanzitutto rompere un tabù, quello della biologia. Ripercorrere le differenze tra uomo e donna sul piano del patrimonio biologico e dell’eredità filogenetica può aiutare a comprendere le ragioni di certi fenomeni aggressivi ed è il primo passo per contrastarli, a patto che il richiamo alle predisposizioni biologiche non sia frainteso e considerato come una legittimazione della violenza.

Da dove partire per spiegare fenomeni come “Mia moglie” o “Phica”?
«Dal fatto che siamo “corpo e mente”, con una radice biologica, ma siamo anche degli esseri “culturali”, con la cultura che nasce dal pensiero, dalle nostre specifiche capacità cognitive che poi è il motivo per cui possiamo considerarla una leva di evoluzione dell’essere umano. Solo nell’interazione tra “corpo e mente”, ovvero “natura e cultura” possiamo capire qualcosa di più dei comportamenti degli esseri umani».

La sessualità va quindi intesa all’interno di questa complessità?
«L’atto sessuale è qualcosa di molto “antico” nel processo di evoluzione dell’essere umano, a partire dai primi vertebrati e dai mammiferi da cui abbiamo origine e che poi ha portato all’evoluzione dei nostri antenati, fino al cosiddetto homo sapiens. Riconoscere questo è il primo passo. Oggi quando si parla di sessualità si tende a sottolinearne solo il “peso culturale” che però, non può prescindere dall’origine biologica. Se andiamo ad attingere alle conoscenze che vengono dalle neuroscienze, dalla psicologia evoluzionistica, dalla biologia e psicologia, ci rendiamo conto che nel cervello maschile c’è, nella parte più arcaica, un’antichissima predisposizione alla connessione tra sessualità e aggressione in un rapporto di dominanza della donna. Attenzione però che non si tratta di una spinta obbligatoria verso certi riprovevoli comportamenti, o peggio di una scusa che li giustifichi, ma è una disposizione presente nel cervello arcaico maschile che è stata superata dall’evoluzione».

Perché è importante ricordare l’esistenza di questa predisposizione?
«È utile saperlo perché ci permette di ricordare quanto la cultura possa favorire o controllare queste disposizioni che, ripeto, non sono assolutamente degli obblighi. Prendere consapevolezza di questa base biologica, spiegarla ai bambini, è il primo passo per contrastare certi fenomeni violenti. Soprattutto i maschi devono sapere che c’è una disposizione arcaica alla sopraffazione che va controllata ma che c’è una cultura tossica che può farla riemergere».

Ci spiega meglio il ruolo di queste predisposizioni arcaiche?
«Non hanno niente a che vedere con quelle specifiche dell’essere umano, sono predisposizioni pre-umane che ci portiamo dietro in quanto esseri umani come eredità filogenetica. Questa è una puntualizzazione fondamentale. Le “predisposizioni umane”, invece, sono propensioni basate sul riconoscimento dell’altro come proprio simile, fanno leva sulla capacità di sintonia emotiva – che poi in maniera più evoluta diventa empatia -, sulla capacità di collaborazione, di altruismo, di legame. E questi tipi di predisposizioni sono presenti sia nel cervello maschile che femminile. C’è un deficit nella cultura attuale che considera certe caratteristiche, che biologicamente appartengono a tutti gli esseri umani, più propriamente come femminili, in realtà da un punto di vista biologico su questo punto siamo tutti uguali. A livello cerebrale si creano delle connessioni sinaptiche, delle reti di connessioni, che poi si consolidano e diventano comportamenti abituali».

Il tema a questo punto diventa culturale…
«Se un soggetto coltiva soltanto le predisposizioni arcaiche avrà una maggiore tendenza a certi tipi di comportamenti impulsivi. Se, invece, sin da bambini viene coltivata la “socialità positiva” che porta a processi di identificazione non solo a livello emotivo ma anche cognitivo, diventa naturale agire pensando alle conseguenze dei nostri comportamenti sugli altri. Mettersi dal punto di vista dell’altro è una disposizione che abbiamo da un punto di vista biologico e che, se non coltivata, si perde. È una questione di connessioni cerebrali che poi si consolidano e diventano abitudini che si tramandano di generazione in generazione. In poche parole, la biologia di fondo è uguale per tutti, ma poi il cervello individuale di ognuno si forma e si plasma sulla base della programmazione biologica ma anche sulla base delle esperienze culturali che ognuno fa».

Nell’era delle relazioni digitali questo processo di consolidamento a livello cerebrale può essere in qualche modo compromesso?
«Tutte queste disposizioni, filogeneticamente, nascono nelle relazioni “faccia a faccia” e nel corso dell’età evolutiva si costruiscono all’interno di una relazione fisica e reale con l’altro, oggi invece assistiamo a un prevalere del virtuale. E questo ha degli impatti nell’educazione dei bambini perché non fa sperimentare concretamente, non fa stabilizzare nel cervello e nella psiche delle modalità di relazione a cui siamo predisposti e che, se non esercitiamo, si perdono. Se durante l’età evolutiva, che va dalla nascita fino all’adolescenza ed è il periodo della vita in cui la plasticità del cervello è maggiore, non vengono fatte esperienze concrete di relazione con l’altro, non ci si allena a gestire le emozioni, a sperimentare la sofferenza, il dolore, la frustrazione, ma anche il conforto e l’empatia, queste capacità insite in ciascuno di noi si perdono, non si fissano nel cervello. La capacità biologica non viene meno perché rimane comunque la disposizione, ma diventa molto più difficile concretizzarla».

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Il tema culturale richiama a una responsabilità sociale, ma c’è anche una responsabilità individuale?
«Accanto a responsabilità culturale c’è anche quella del singolo individuo che ci rende esseri capaci di autocoscienza, una disposizione che va esercitata e coltivata. Tutti noi siamo biologicamente capaci di riflettere sulle nostre azioni e siamo in grado di chiederci se abbiamo sbagliato delle cose, di cogliere delle critiche, riflettere sulle conseguenze dei nostri atti. Se un individuo cresce in un ambiente molto sfavorevole, dove c’è un “vuoto sociale”, può trovarsi a esercitare poco o male la sua autocoscienza. Di fatto a determinare le azioni sono le influenze biologiche, quelle derivanti dalla cultura ma c’è anche l’autocoscienza individuale, che permette all’individuo di riflettere su ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, avere un atteggiamento critico su di sé e sugli altri».

Una corretta educazione alle “relazioni” andrebbe praticata già nella fase educativa, ma le generazioni di oggi sono sempre più virtuali. Questo avrà delle ripercussioni?
«Senza l’incontro fisico non è possibile cogliere il “non verbale” con tutta la complessità dell’espressività emotiva dell’altro, rappresentata dal linguaggio del corpo ma anche dagli aspetti inconsci. Pensiamo per esempio al riflesso pupillare, o il rossore sul viso, elementi che si perdono nell’interazione virtuale che non porta a cogliere sfumature fondamentali. Tutta la finezza dell’espressività emotiva non c’è e, oltretutto, online non c’è – o è molto limitata – l’autocensura. Il digitale non va demonizzato ma se un bambino, ragazzino, passa la maggior parte del suo tempo in un ambiente virtuale, toglie il tempo all’incontro reale con gli amici».

Tornando al caso “Mia moglie”, alcuni partecipanti hanno giustificato la presenza su quel sito dicendo che era “solo un gioco”
«Il fatto che hanno detto che era solo un gioco è il classico meccanismo di “disimpegno morale”, che accade quando una persona viene messa di fronte al fatto che ha compiuto qualcosa di riprovevole. Solitamente quella persona si rende conto, nel profondo, che è un comportamento riprovevole, ma ammetterlo metterebbe in crisi l’immagine pubblica che ha di sé, dovrebbe riconoscere che ha fatto qualcosa di male. Per difendersi e non mettersi in discussione attinge a dei meccanismi mentali che lo portano a dire “è solo un gioco”, “lo fanno tutti”. Va, però, distinta la giustificazione che viene elaborata mentalmente dopo l’atto, da quelli che sono i motivi più profondi che hanno portato a questi comportamenti e che nascono dal prevalere di una modalità arcaica di dominio, favorita dalla condivisione in gruppo. E questo è un altro aspetto su cui lavorare a livello culturale e di educazione fin da piccoli».

Condividere e lasciare alla mercé dei commenti più beceri “solo” alcune parti del corpo della propria donna ha avvalorato, tra alcuni partecipanti, la tesi del gioco innocuo.
«La propria donna che non è più una persona, non è neanche un corpo intero, ma parti di corpo che sono sessualmente rilevanti. Nel caso della pornografia sono immagini esplicite, nel caso di “Mia moglie” sono caratteri sessuali secondari, ripresi sempre con una logica pornografica. Secondo la definizione dell’American Psychological Association (APA) si tratta di una sessualizzazione secondaria che porta a comportamenti aggressivi perché manca l’identificazione con l’altro. L’altro, in questo caso, è solo un pezzo di carne. Se isoliamo parti di corpo tutto diventa possibile».

Nel caso di “Mia moglie” o di “Phica” prevale la logica del branco, perché?
«Da una parte c’è una generalizzazione della responsabilità, dall’altra c’è in gioco un elemento di imitazione mimetica che porta a pensare “altri lo fanno” e “io imito”. E questo è un altro aspetto su cui si riflette poco. L’uomo è un essere sociale e questa socialità contempla, a livelli primitivi, l’imitazione. Un’imitazione che è automatica, non è ragionata, autorizzata dal fatto che quel gesto, quel tipo di comportamento che magari sotto sotto so che non andrebbe fatto, lo fanno tutti. E allora parte il meccanismo mentale che fa pensare che “se lo fanno tutti che male c’è?”. Nella pagina di “Mia moglie” c’è anche un altro elemento: la competizione sessuale gerarchica tra maschi, il dire “io posseggo questa donna e te la faccio vedere”, come trofeo da esibire e che fa sentire superiori e vincenti rispetto agli altri uomini. Cambierebbe tutto se la competizione fosse reale, e l’avversario che insidia la loro donna fosse vicino, in questo caso non sarebbero tollerati condivisioni e commenti. Nel caso di “Phica”, invece, in cui le protagoniste sono persone famose, il tema di fondo è il dominio di una donna emancipata, uscita da un ruolo di sottomissione. Le protagoniste del portale, infatti, erano donne che esercitavano un ruolo pubblico, quindi donne “uscite di casa” e “libere”».

17 settembre 2025 ( modifica il 17 settembre 2025 | 15:58)

17 settembre 2025 ( modifica il 17 settembre 2025 | 15:58)

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