
L’uccisione di Charlie Kirk, carismatico influencer di destra, rilancerà dei dubbi sul Primo Emendamento? L’America in quell’articolo della sua Costituzione ha una delle protezioni più robuste della libertà di espressione, forse la tutela più radicale di tutto l’Occidente e quindi del mondo, del diritto di parola. In una nazione dove pullulano le armi da fuoco, dove aumentano i ranghi dei fanatici, e naturalmente non mancano gli squilibrati, il semplice fatto che il discorso politico sia sempre più polarizzato può scatenare la violenza?
Donald Trump è stato veloce ad accusare la sinistra che istiga all’odio, come mandante ideologica dell’assassinio di un personaggio a lui molto vicino. Sul versante opposto è scattato un riflesso simile. Un noto commentatore della Msnbc, rete televisiva progressista, nel commentare in diretta la telecronaca dell’attentato ne ha attribuito la responsabilità alla vittima, ha indicato nel «linguaggio di odio» di Kirk la causa della sua morte. Il commentatore in questione, Matthew Dowd, ha poi dovuto scusarsi ed è stato licenziato, ma per chi conosce il clima politico attuale degli Stati Uniti è chiaro che lui interpretava una reazione molto diffusa tra i progressisti, del tipo «Kirk se l’è cercata».
Il Primo Emendamento va quindi messo sotto accusa? C’è un nesso diretto e causale, fra una libertà di espressione pressoché illimitata (in America, a differenza di molti paesi europei, non esiste un reato come l’apologia di fascismo, nessuna difesa di totalitarismi può essere perseguita, così come non è punibile il negazionismo dell’Olocausto, pur di non scivolare verso la persecuzione dei reati d’opinione) e chi ne trae ispirazione o legittimazione per la violenza politica?
Il tema si è riproposto più volte nei tempi recenti. Quando Trump fu vittima di un attentato in piena campagna elettorale, nel suo campo molti accusarono la sinistra che agitava lo spettro del fascismo, e ricordarono la copertina di un noto magazine progressista dove Trump era raffigurato come Hitler: se davvero rischiava di prendere il potere un aspirante dittatore, ucciderlo non era forse un gesto eroico, resistenziale? Quel tipo di retorica può armare la mano agli aspiranti omicidi, facendoli sentire degli eroi di una causa nobile?
Sul versante opposto, l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021 era stato denunciato dai democratici come una diretta conseguenza del comizio in cui quel giorno Trump aveva contestato il risultato elettorale e la vittoria di Joe Biden. In quel caso il Primo Emendamento aveva fatto da scudo al presidente uscente: la procedura di impeachment non ebbe esito, perché anche a lui era riconosciuta libertà di parola, e la semplice incitazione a contestare non era perseguibile.
L’attentato a Kirk mentre scrivo non ha ancora un autore, l’omicida è ricercato dalla polizia, è quindi prematuro e imprudente procedere con le etichettature ideologiche. Questo gioco dell’attribuzione però negli Stati Uniti è scattato fin dai primi minuti dopo l’assassinio. In quanto alla vittima, era un radicale di destra senza dubbio, un ultrà di Make America Great Again, un irriducibile del trumpismo (a tal punto da avere avuto qualche screzio col presidente quando quest’ultimo scendeva a compromessi). Invece descriverlo come un «istigatore di odio» è una forzatura.
All’università dello Utah, Kirk stava tenendo una conferenza del suo ciclo intitolato Prove Me Wrong: «Dimostrami che ho torto». Come suggerisce il titolo, era un formato aperto al dialogo con tutti gli oppositori. Non esitava quindi a confrontarsi con estremisti di segno opposto, che nei campus universitari non mancano e anzi in genere sono la maggioranza (e una maggioranza spesso intollerante). Era un caso abbastanza raro, di un ideologo di parte che non si limitava a predicare al suo gregge, a rimanere chiuso dentro un «bolla», una cassa di risonanza di pareri conformi; invece usciva allo scoperto e faceva incursioni in territorio ostile.
Un editoriale del Wall Street Journal lancia un allarme degno di attenzione sul contesto in cui è maturato questo attentato: «È un momento pericoloso per il Paese, che potrebbe scivolare in un ciclo di violenza politica difficile da fermare. Il presidente Trump è sopravvissuto a due tentativi di assassinio. A giugno due parlamentari democratici del Minnesota sono stati colpiti da arma da fuoco, uno dei quali è rimasto ucciso. In aprile la casa del governatore della Pennsylvania, Josh Shapiro, è stata incendiata con una bomba molotov. Tre anni fa un aspirante assassino si consegnò spontaneamente davanti all’abitazione del giudice Brett Kavanaugh. Il deputato Steve Scalise fu ferito da colpi di arma da fuoco nel 2017 e la deputata Gabby Giffords nel 2011.
Gli autori di questi attentati presentano gradi diversi di malattia mentale e delirio, ma la società americana ha progressivamente smantellato i freni civili e sociali che un tempo impedivano a menti disturbate di deviare in modo così disastroso dalle norme della convivenza civile. L’ascesa di Internet significa invece che oggi esiste una nicchia di contenuti per quasi tutto, comprese narrazioni oscene in cui Luigi Mangione (il sedicente «giustiziere-omicida» che ha assassinato il chief executive di un’assicurazione sanitaria) è trasformato in un eroe popolare per aver assassinato un cinquantenne padre di due figli per strada a New York.
Cosa diranno gli sciacalli dei social media su Kirk? Allo stesso tempo, la retorica politica ha raggiunto toni che difficilmente potrebbero essere più accesi. Ad ascoltare ciascuno degli schieramenti, perdere le prossime elezioni significa la fine dell’America. L’opposizione politica alle proprie idee viene spesso descritta non solo come profondamente sbagliata o in errore, ma come intenzionata a distruggere il Paese, stracciare la Costituzione, instaurare un regime fascista.
L’odio furioso della sinistra politica è particolarmente acuto in questo momento, date le divisioni suscitate dalla presidenza Trump. Per alcuni, tutto questo fa parte del gioco delle parti. Ma gli ascoltatori disturbati sono meno capaci di distinguere la retorica dalla realtà».
Un’aggiunta storica può essere utile. Neppure questo ulteriore scivolamento verso la violenza politica è davvero senza precedenti. Tutti ricordiamo i grandi assassinii politici, da Lincoln ai fratelli Kennedy a Martin Luther King. Quasi tutti dimenticano invece che l’America degli anni Sessanta fu la pioniera dei nostri «anni di piombo» e dei nostri «opposti estremismi». Ebbe in particolare delle formazioni terroristiche che praticavano gli attentati esplosivi, i sequestri di persona, gli omicidi. I Weathermen e le Black Panthers fecero scuola a quelle che poi sarebbero diventate le schegge europee: Brigate Rosse e terrorismo neofascista in Italia, Rote Armee Fraktion in Germania, Action Directe in Francia.
Sullo sfondo, nell’America di allora, c’erano una guerra contestata (in Vietnam), tensioni razziali, un presidente divisivo (Richard Nixon). I conti con quella stagione di violenza politica non furono mai saldati in modo equilibrato, equanime. Anche allora i morti venivano «pesati», gli attentati avevano giustificazioni o attenuanti se venivano dalla parte «giusta». L’unica certezza che non è stata messa in discussione neppure allora: il Primo Emendamento. È in quei tragici anni Sessanta, del resto, che attecchì la moda di bruciare in piazza la bandiera a stelle e strisce, e perfino quel gesto fu dichiarato protetto dalla Costituzione.
11 settembre 2025
© RIPRODUZIONE RISERVATA
11 settembre 2025
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