
La carne ha avuto aumenti percentuali a doppia cifra, il salmone si è spinto a +25%, il caffè si è innalzato del +35% e l’olio ha quasi raddoppiato di prezzo. Il caro prezzi a Brescia dal 2021 al 2024 – come nel resto d’Italia, è giusto ricordarlo – si è fatto sentire parecchio, erodendo il potere d’acquisto delle famiglie.
In un Paese che è riuscito a essere maglia nera in ambito Ocse per salari fermi da praticamente trent’anni, non stupisce quindi che la quota di mercato dei discount sia praticamente raddoppiata in quindici anni, passando dal 12% circa del 2010 rispetto al totale della grande distribuzione all’attuale 23,7%. A Brescia si contavano sulle dita di una mano, adesso sono sempre più numerosi, diffusi, non più periferici ma anche a ridosso del centro storico e dei quartieri più ricchi, talvolta soppiantano la grande distribuzione tradizionale, sempre più sono diventati un’alternativa come le altre, al punto che per molte famiglie la distinzione tra supermercati tradizionali e discount è progressivamente venuta meno, anche grazie a politiche di diversificazione dei prodotti e della qualità fatte da questi ultimi.
Se l’olio extravergine di oliva passa da 5 euro a bottiglia a 9,81 – come è accaduto negli ultimi tre anni -, o se alcune marche di caffè hanno raddoppiato i prezzi e la media è comunque di oltre il 35%, qualche strategia – a salari fermi – bisogna adottarla. Nel periodo 2021-2024 l’inflazione a Brescia è cresciuta del 14,3%, ma se si osservano alcune divisioni di spesa l’aumento è stato ancora più consistente: gli alimentari sono aumentati del 18,6%, i trasporti del 14,8% e le spese per la casa (riscaldamento innanzitutto) del 29,2%. Sono divisioni di spesa su cui qualcosa si può limare, ma non molto. Rientrano nei cosiddetti beni incomprimibili, che non si possono ridurre appunto, a meno che non si voglia smettere di riscaldare l’appartamento, adottare un regime alimentare insano o smettere di muoversi per andare al lavoro. E per cui, sì, i discount crescono di numero e di quote di mercato grazie anche a strategie di vendita azzeccate ma raccontano anche della progressiva riduzione del potere d’acquisto delle famiglie.
I rinnovi contrattuali fatti nell’ultimo anno hanno recuperato qualcosa, anche più dell’inflazione dell’analogo periodo, ma sono ben lontani dall’avere colmato quel 15-16% di inflazione cumulata dell’ultimo triennio. Non solo, gli aumenti dell’ultimo anno hanno fatto anche ritornare di moda il fiscal drag, il drenaggio fiscale, quel fenomeno in cui l’aumento dei redditi nominali spinge i contribuenti verso scaglioni di reddito superiori e quindi a pagare più tasse, nonostante il potere d’acquisto non sia aumentato ma, anzi, diminuito. Un fenomeno, questo, che interessa soprattutto lavoratori dipendenti e pensionati, che hanno un’imposizione fiscale di tipo progressivo e non la cosiddetta flat tax che riguarda una fascia crescente di lavoro autonomo.
La congiunturale relativa al secondo trimestre segnala un piccola inversione di tendenza positiva per la produzione industriale (dopo praticamente tre anni negativi) ma le aspettative per l’autunno non sono positive. Molte nubi continuano a esserci, le tensioni internazionali non aiutano, la Francia che traballa sul fronte del debito preoccupa anche di qua dal confine, men che meno sembra chiusa la partita (già in perdita) dei dazi. Sullo sfondo, appunto, redditi reali che nell’ultimo anno hanno magari recuperato qualcosa ma sono ancora in deficit di ossigeno.
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11 settembre 2025
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