
La squallida vicenda del gruppo Facebook «Mia moglie» in cui i partecipanti diffondevano e commentavano foto rubate alle proprie mogli e le commentavano, stimola una riflessione sui meccanismi psicologici che hanno spinto oltre 32.000 uomini ad alimentare un rito collettivo violento, oltre che illegale. Immaginare che la propria compagna possa diventare oggetto dello sguardo e del desiderio di un altro uomo rientra nel quadro psichiatrico delle perversioni maschili. Per provare a spiegare il fenomeno e dargli un significato psichico e emotivo Leonardo Mendolicchio, psichiatra e psicoanalista, direttore del Dipartimento di Cura e ricerca disturbi alimentari all’Istituto Auxologico Piancavallo di Verbania e autore del libro «L’amore è un sintomo» (edizioni Solferino), ricorda la figura mitologica di Candàule, ultimo re di Lidia, che secondo il racconto di Erodoto avrebbe avuto il vizio di far nascondere lo schiavo Gige nella sua stanza da letto perché ammirasse la bellezza senza veli di sua moglie che, venuta a saperlo, avrebbe poi obbligato Gige ad uccidere il marito e a succedergli nel trono.
«La storia di Candàule spiega la logica che sta dietro questa perversione che non è un fenomeno nuovo ma, come tutte le perversioni, ha una radice culturale e storica profonda. Il mito raccontato da Erodoto mostra come il corpo delle donne possa diventare oggetto di potere da parte dell’uomo che si interroga su dove può spingersi per esercitare il suo potere ma che anche su come un altro uomo possa esercitare questo potere nell’accedere a una donna convenzionalmente inaccessibile, perché sposata o in coppia con qualcun altro. È una trasformazione perversa di un “gioco culturale” che il maschio fa rispetto al corpo della donna che diventa oggetto di analisi, strumento e comprensione per rispondere alle ancestrali domande “che potere ho?”, “fin dove posso spingermi?”».
Un tempo questo tipo di perversione era vissuto in ambiti circoscritti, i social gli hanno dato una dimensione globale?
«Culturalmente, da sempre, le donne sono state schiave delle perversioni dei mariti. Anche quando le coppie, consensualmente, utilizzano particolari strumenti o scenari per alimentare il desiderio, mediamente non è una perversione che la donna vive liberamente ma la subisce, anche se inconsciamente. Quello che invece è nuovo, rispetto alla storia del mito greco, è che oggi le perversioni si aggregano molto più facilmente attraverso i social che le rendono un fenomeno culturale condiviso, è come se la perversione fosse resa lecita perché condivisa, a maggior ragione se da oltre 32mila iscritti. Il corpo della donna continua perciò a essere oggetto di analisi del potere del maschile, alimentate dalle fantasie dell’uomo che trova godimento nel confrontare l’esercizio della propria potenza sessuale rispetto a quella di altri uomini, con in più l’ulteriore perversione che rendere tutto ciò condivisibile lo fa diventare costume comune».
Nel gruppo Facebook “Mia moglie”, come in quello di altre realtà analoghe, l’identità di chi posta o commenta le foto è il più delle volte nota. Non esiste quindi alcuna vergogna negli autori o commentatori dei post?
«Laddove il comportamento viene condiviso diventa legittimo. Ma questo accade in altre pericolosissime situazioni che vediamo quotidianamente sui social, ne sono una prova i siti o profili Pro-Ana delle ragazzine anoressiche. Basta un gruppettino di ragazzine malate che si sfidano per diventare sempre più magre per dare vita per dare vita a un sottogruppo che si identifica in quel modo di pensare. È un meccanismo potentissimo che oltretutto alimenta un’altra perversione culturale sempre sul corpo della donna che diventa teatro di un mercimonio economico per i grandi colossi digitali. Sui social, come nella vita reale, bisogna tornare a condividere delle regole di convivenza che possano tutelare la persona».
Si parla spesso di “maschio in crisi”, lei parla anche di “maschio povero”, cosa intende?
«Si tratta di una povertà emotiva, non legata necessariamente ad aspetti culturali, economici, sociali. Il maschile oggi si sente perso rispetto a un’identità che è profondamente cambiata. Non stiamo educando il maschile a collocarsi in una dimensione identitaria nuova rispetto al mondo che è profondamente cambiato e in questo vuoto alcuni uomini convogliano la propria forza in modo profondamente sbagliato, come prova questo gruppo Facebook, ma anche le numerose forme di sopruso quotidiano esercitate all’interno delle dinamiche di coppia, fino ad arrivare ai casi più estremi, i femminicidi».
Cosa suggerisce di fare per educare i giovani maschi a costruire la propria identità, così diversa dai modelli che li hanno preceduti?
«Bisogna agire sulla cultura del maschile che vada oltre i cliché del virile, della performance, che il mondo sta fortunatamente già disgregando, ma che il maschio, quello che non si mette in discussione, non riesce a rielaborare. È come se alcuni maschi sentissero superato l’unico modello maschile a cui avevano sempre fatto riferimento ma non avessero le capacità per trovarne altri, per evolversi. Il gruppo “Mia moglie” ci insegna che alcuni hanno bisogno sentirsi allineati rispetto alla possibilità di esercitare una forma di potere sulla donna perché per loro significa recuperare qualcosa di identitario che sentono vacillare. In un vuoto di riflessioni sul maschile preferiscono, quindi, agire attingendo agli istinti più arcaici in modo da ritrovare uno spazio che permetta loro di sentirsi in un branco in cui possano facilmente riconoscersi. Si tratta di un meccanismo molto subdolo e complesso».
La povertà culturale e identitaria del maschio di oggi trova terreno fertile nel mondo social ?
«I maschi non hanno mai dovuto culturalmente lottare per avere l’approvazione dall’esterno. Solo per diritto di nascita si sono sempre considerati, anche a livello inconscio, meglio delle donne. Nell’epoca dei social, la società si è ridisegnata dando importanza all’approvazione dell’altro e i maschi risultano i più intimiditi e questo, talvolta genera atti di violenza. Da una parte estremizzano il bisogno di essere riconosciuti e accreditati rispetto alla loro forza, al loro essere maschi, dall’altro se non riesco a legittimare la loro identità agiscono con violenza on e offline. Da una parte bisognerebbe lavorare per ridimensionare il meccanismo di riconoscimento plateale, dall’altra incentivare il maschio a ridisegnarsi un ruolo nella società. La povertà culturale del maschio di oggi potrebbe essere l’occasione perché rimetta tutto in discussione ed evolva, ma c’è anche il rischio che rimanga vittima dei propri cliché. In quest’ultimo caso, in un mondo che non accetta più quei cliché, è probabile che dia sfogo alla propria frustrazione attraverso atti più o meno gravi di sopraffazione e violenza».
Tornando al gruppo Facebook «Mia moglie», i partecipanti non si sono mai interrogati su cosa avrebbero provato se la situazione fosse stata ribaltata e le foto fossero state le loro?
«Gli uomini che partecipano ad attività come quelle del gruppo Facebook citato non si pongono in problema di avere agito male, figuriamoci se hanno preso in considerazione la possibilità di essere loro stessi considerati oggetti. Per loro l’altro, ovvero la moglie, è un oggetto disumanizzato, non ha valore e si sentono di poterne fare quello che vogliono, anche di annientarne l’esistenza. Empatia, rispetto, pietas e altri meccanismi umani non sono contemplati. Per loro la donna è un oggetto attraverso il quale godere e possono disporne come vogliono. Si sentono come il soggetto unico che esercita il potere, mentre l’altro è chi lo subisce».
Alcuni partecipanti del gruppo Facebook “Mia moglie” hanno banalizzato la loro partecipazione dichiarando che era “solo” un gioco…
«Sui social alcune persone si sentono autorizzate a dire tutto, senza limiti. Come se il digitale non avesse ripercussioni, anche gravi, sulla vita di altre persone, considerano il web una zona franca dove gli istinti più beceri dell’essere umano hanno legittimità di essere espressi. In alcuni uomini viene meno qualsiasi censura che fa superare facilmente i confini tra il bene e il male. Oltretutto sono fenomeni che si autoalimentano perché fa parte del meccanismo che regola i Social farti vedere gruppi di appartenenza simili al tuo modo di pensare, quindi fanno più fatica a mettersi in discussione e a capire che certe azioni sono profondamente sbagliate. Piuttosto che chiudere il gruppo Facebook “Mia moglie” che, come hanno dichiarato alcuni componenti, si è probabilmente trasferito in altri social o piattaforme digitali, sarebbe stato più utile intervenire all’interno del gruppo per suscitare una riflessione nei diretti interessati. Abbiamo il dovere di entrare nelle viscere del mondo maschile in crisi per cambiarne il linguaggio, le azioni, la censura non basta a risolve il problema. Come sosteneva lo psicanalista e psichiatra francese Jacques Lacan il “Super io” di oggi porta a pensare che si possa dare libero sfogo ai propri istinti, senza limiti e se qualcuno ti blocca non solo non va bene ma “va rimosso”. Servono limiti e regole, è un tema di convivenza civile e valori umani da rimettere al centro delle nostre vite e non ha a niente a che fare con il moralismo come alcuni vogliono far credere».
Si parla spesso di lotta al patriarcato, è questo il punto?
«Il patriarcato non giustifica fino in fondo che il fatto che un marito o un compagno possa agire pensando che non c’è niente di male a rubare le foto della compagna e postarle per metterle alla mercé di chiunque. È un meccanismo molto più profondo. Quello che sta dietro non è un atto di potere deliberato che l’uomo fa per soggiogare la donna, come nella logica del patriarcato, ma è un meccanismo comportamentale più subdolo, quasi involontario, che parte dal presupposto che l’uomo considera la donna “cosa sua”, è un meccanismo radicato e molto profondo che non attiva alcun pensiero critico. Un’ultima, provocatoria, riflessione. Mettiamo in discussione il patriarcato e certi meccanismi radicati nell’uomo ma permettiamo a ragazzine minorenni di esporre il proprio corpo sui Social, alimentando la cultura del mercimonio del corpo femminile fin da tenera età. È un cortocircuito culturale drammatico, anche perché – soprattutto per le adolescenti – il corpo costruisce l’identità, ma se quell’identità diventa merce di scambio, tanto per i maschi adulti quanto per la ragazzina adolescente che, con l’approvazione dei genitori, punta a far aumentare i follower magari anche per motivi economici è evidente che, non solo, certi meccanismi di legittimazione e normalizzazione sono analoghi ma si alimentano tra loro. Il punto fondamentale però è che dobbiamo lavorare, a livello di società, perché ogni bambina, ragazza e donna possano vivere senza la paura che il proprio corpo diventi oggetto sessuale o merce di scambio».
22 agosto 2025
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