Home / Cinema e TV / Vittorio Storaro, il Signore della luce: «Lasciare la scuola dopo la terza media è stata la mia fortuna. I registi italiani non mi chiamano, magari pensano sia un rompiscatole»

Vittorio Storaro, il Signore della luce: «Lasciare la scuola dopo la terza media è stata la mia fortuna. I registi italiani non mi chiamano, magari pensano sia un rompiscatole»

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«Tre in Italiano, due in Matematica. Caporetto. Andai a vedere i quadri degli esami di terza media: bocciato inesorabilmente. Fu la mia fortuna, entrai al laboratorio fotografico di mio padre», racconta Vittorio Storaro. Destino sospeso. Alcuni decenni dopo all’orizzonte spuntarono tre premi Oscar: «
Apocalypse Now», «Reds», «
L’ultimo imperatore». E altri premi in bacheca, l’ultimo per la Fondazione Città di Terracina nell’ambito dell’incontro «Cinema come pittura». Oggi col cellulare siamo tutti fotografi: lui parla di immagini. Ha un’aura  quasi mistica, prepara un film su Gesù bambino. Se si scava vengono fuori simpatia, visione poetica e passione genuina.

Perché secondo lei è sbagliato dire che fa il direttore della fotografia?

«Al cinema, come si dice in inglese, c’è un solo direttore, ed è il regista. Non c’è posto per due sul podio. È un lavoro collettivo e c’è l’orchestra. Direttore della fotografia sarebbe l’espressione di una singola immagine: il cinema è immagini in movimento».

Il suo ultimo film in Italia è del 1993, più di 30 anni fa.

«…”Piccolo Buddha” di Bertolucci. Ne ho fatti una decina con lui, se non aveva un’idea per ogni immagine della cinepresa in movimento fermava il set, e così a me chiedeva ogni volta una visione figurativa specifica. I registi italiani non mi chiamano, magari pensano sia un rompiscatole, e se mi chiamano non vogliono sentire le mie proposte, non accettano l’idea che possa avere una visione, spesso sono arroganti, non accettano che possa avere una visione da proporre».

In compenso ne ha realizzati cinque per Woody Allen.

«Quando arrivò la proposta per il primo film insieme, chiesi al mio agente americano di poter leggere la sceneggiatura. Non ce n’è bisogno, è Woody Allen, obiettò in modo sorpreso. Secondo me, tra i tanti suoi film, alcuni sono straordinari, altri buoni, altri ancora non li avrei accettati».

Come finì?

«Woody mi mandò il copione e mi disse, Vittorio non ti preoccupare, se non ti piace faremo altre cose insieme. Era “Café Society”, dove c’è una dualità di mondi tra il prima (una famiglia ebrea a New York) e il dopo (lo star system di Los Angeles): corrisponde al contrasto e al rapporto che studio da tutta la vita tra luce naturale e luce artificiale».

La tecnologia come ha cambiato il suo lavoro?

«Col digitale, i giovani hanno perso sensibilità nell’uso della luce. Il racconto per immagini è un’altra cosa. La luce naturale è bella, la usavo nei documentari quando non c’erano soldi, ma non è detto che sia la più giusta per una scena. Al Centro Sperimentale di Cinematografia appresi concetti tecnici, non artistici». 

Faccia un esempio sulla luce giusta. 

«Beh, in “Apocalypse Now “c’è il rapporto tra la naturalezza dell’ambiente e la violenza della guerra americana in Vietnam. Ampliai il mio vocabolario, prima disponevo solo del nero, del grigio e del bianco.  studiai Isacco Newton secondo cui la luce bianca è una miscela di tutti i colori e che ogni colore è associato a un grado di rifrangibilità della luce. A Coppola mostrai un libro sulla simbologia astratta di Tarzan, usai la teoria rivoluzionaria di Newton in modo simbolico su luoghi e personaggi».

Il suo ciclo di libri si intitola «Scrivere con la luce».

«Pensi che quando ero giovane si pensava che i film drammatici dovevano farsi in bianco e nero perché il colore non andava bene per le ombre. La scoperta della lama di luce nella penombra di La vocazione di San Matteo di Caravaggio fu fondamentale. Ho scritto sugli elementi naturali, sulle muse, ora sui profeti, che arrivano prima di noi».

C’è un colore che le piace più di altri?

«Ogni momento della vita ha un colore che lo rappresenta. Ora direi il violetto».

È la tonalità associata alla spiritualità.

«Ecco, sto preparando un film con il regista algerino Rachid Benhadj sull’infanzia di Gesù, raccontiamo come in una favola di lui e di Giovanni che crescono insieme dai 2 ai 12 anni. Sarò autore della fotografia e per la prima volta sceneggiatore, con Carlo Martigli che ha scritto un libro e da questo libro abbiamo ricavato la sceneggiatura, in copertina c’è La fuga in Egitto di Giotto. Il Vaticano dice che siamo in linea con i Vangeli. Il titolo del film è “Il meraviglioso viaggio del piccolo Messia”».

Suo padre era proiezionista alla Lux Film, è come se la pellicola di «Nuovo Cinema Paradiso» fosse un grande tatuaggio sulla sua pelle.

«Ricordo il rumore del proiettore in sala che sovrastava i dialoghi. Da assistente a un laboratorio fotografico, ripulivo le bacinelle d’acqua coi negativi, elaboravo le immagini, in penombra, nel silenzio. Una magia».

19 agosto 2025

19 agosto 2025

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