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«Bene che il museo di Sarajevo raccolga fondi per i palestinesi a Gaza ma perché soltanto dall’Haggadah?

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Quel libro di Pasqua, che racconta la storia di Mosè e dell’uscita degli ebrei dall’Egitto, ha costantemente suscitato in me un fascino particolare. Non so se sia stato per la forma delle lettere che avrei scelto più tardi come modello da studiare, interpretare e copiare, o per le radici saldamente ancorate in quella terra iberica che accomuna lei e i miei avi, da cui vennero entrambi cacciati. L’Haggadah di Sarajevo è uno di quei preziosi manoscritti ebraici che custodiscono una storia, una saga, ma soprattutto spiritualità e speranza. Vergata su pergamena, contiene la narrazione dell’Esodo, un testo che da almeno 2500 anni gli ebrei di tutto il mondo recitano la sera di Pesach, la Pasqua ebraica. Sintetizzandolo in una frase, la lettura dell’Haggadah è il simbolo dell’identità ebraica che viene tramandata in ogni famiglia, di generazione in generazione. Su quei fogli, si è riso, pianto, si è versato vino di gioia e lacrime di disperazione. Chi ha posseduto questo esemplare ha deciso che dovesse far parte del baule delle cose importanti. 

Quelle che non potevano rimanere indietro quando l’editto infame dei re di Spagna Isabella di Castiglia e Ferdinando II d’Aragona pretese con crudeltà che un luogo divenisse d’un tratto interdetto agli ebrei e dovesse essere abbandonato insieme alle sinagoghe e ai campisanti. Ed è così che il codice è arrivato in Italia nel XVI secolo a seguito degli esuli spagnoli e portoghesi. Era ancora in Veneto quando lo zelante censore, il prete Domenico Vistorini, nelle ultime carte dichiarava «rivisto per mi.. 1609», riscontrando (bontà sua) che il formulario non conteneva nulla che potesse urtare la sensibilità cattolica. Gli intrecci culturali e commerciali della Serenissima che legavano tra loro le comunità affacciate sull’Adriatico fecero sì che alla fine dell’800 l’Haggadah si trovasse a Sarajevo e che venisse acquistata dal nascente museo nazionale della regione bosniaca dell’Impero austroungarico

Da allora, anche grazie all’impegno e all’intelligenza della dirigenza dell’Istituto, il manoscritto ha superato, non senza peripezie, le bufere dell’occupazione nazista e dell’assedio della città degli anni Novanta. Il premio Pulitzer Geraldine Brooks ha incastrato le tessere di questo avvincente mosaico e ne ha tratto l’opera dal titolo «I custodi del libro». Pochi altri oggetti rappresentano in modo più plastico la storia della diaspora ebraica europea; pochi altri cimeli narrano in modo più sonoro un aspetto della vita religiosa che unisce le comunità di tutto il mondo. 

Un giorno all’anno gli ebrei che sfogliano il volume la sera di Pesach riportano alla mente questioni esistenziali: chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo? Dal primo agosto, sulla prima pagina del sito del museo della città di Sarajevo è scritto: The National Museum of Bosnia and Herzegovina announces the decision to donate the income from the sale of the publication “Sarajevo Haggadah – Art and History”, as well as the income from tickets to see the Sarajevo Haggadah, for helping Palestine. I paragrafi successivi, sono invettive contro lo Stato d’Israele colpevole – secondo quanto si legge – di assassinii a sangue freddo, di affamare la popolazione, di deportazioni e tanto altro. Non contesto la scelta di sostenere la causa palestinese; non contesto finanche i toni severi, discutibili e biasimabili della dichiarazione. Approvo senza riserve la raccolta di fondi per la popolazione martoriata di Gaza, sperando che arrivino davvero nelle mani dei civili e non di chi è colpevole per la loro penosa situazione. Ma disapprovo fermamente l’atto di piegare questo bene culturale alla mobilitazione di cui si è fatto interprete il museo. Si sarebbe potuto devolvere il biglietto d’ingresso. Come dobbiamo leggere la scelta di concentrarsi su quell’esemplare e non sull’intero patrimonio dell’istituzione da convocare nel suo complesso a rappresentare il sedicente impegno della Cultura nei confronti della causa palestinese? Purtroppo, non è velato l’intento di chi ha intrapreso questa strada già battuta da tanti altri soggetti. Oramai non solo si pretende perniciosamente che gli ebrei della diaspora, fra i più convinti cittadini d’Europa, si discolpino per le azioni intraprese dallo Stato d’Israele, ma che saldino anche il prezzo delle loro «responsabilità». E se non lo fanno, a pagare il riscatto dovranno essere le loro memorie e i testimoni della loro storia. Potrebbe essere la nuova sfaccettatura di un sentimento antiebraico sempre più sottile che non ci saremmo mai immaginati l’Europa avrebbe conosciuto.

*L’autore è il direttore del Meis (Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e  della Shoah di Ferrara) 

8 agosto 2025

8 agosto 2025

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