Benvenuti nel nuovo ordine del commercio internazionale. O, forse, sarebbe più appropriato parlare di disordine, vista la rapidità con cui le aliquote alle dogane americane cambiano a seconda degli umori e della convenienza della Casa Bianca, che tratta allo stesso modo alleati e nemici. Dalla mezzanotte del 7 agosto è entrata in vigore una nuova geografia commerciale, tracciata dai dazi reciproci dell’America First, stagione seconda. Donald Trump ha riscritto gli equilibri economici globali imponendo tariffe differenziate, dal 10 al 50%, su beni provenienti da 92 Paesi, Unione europea inclusa, tassata al 15%.
I negoziati ancora in corso
È una mappa in divenire, non solo soggetta alle giravolte del presidente americano, che ha già minacciato di portare al 35% i dazi sull’Europa in assenza di nuovi investimenti e ha preannunciato — senza indicare date — un’imposta fino al 100% su chip e semiconduttori, ma anche perché molti negoziati sono ancora in corso, a cominciare dalla trattativa con la Cina, esportatore cruciale di terre e metalli rari, essenziali all’industria d’avanguardia americana. Dopo l’escalation, che aveva spinto Trump ad aumentare i dazi sull’import cinese fino a uno stratosferico 145%, pari a un embargo, al quale Pechino aveva risposto con un contro dazio del 125%, la tregua di Ginevra ha permesso di abbassare temporaneamente le tariffe reciproche per 90 giorni. La scadenza è il 12 agosto. Il terzo round di colloqui tra alti funzionari Usa e cinesi si è tenuto all’inizio di questa settimana in Svezia, con l’obiettivo di prorogare la scadenza, per completare gli aspetti tecnici di un’intesa cruciale per entrambe le economie, fortemente connesse.
Il fronte nord americano
Anche il Messico è in stand-by. Alla presidente Claudia Sheinbaum, Trump ha concesso una moratoria di 90 giorni, per concludere un accordo commerciale. Dall’attuale dazio del 25%, rispetto al 30% minacciato inizialmente, sono però esclusi i beni che rientrano nel trattato dell’Usmca, l’accordo a tre con il Canada che ha sostituito il Nafta, firmato da Trump nel 2020. Al Canada, secondo partner commerciale degli Usa, guidato dal combattivo Mark Carney, assolutamente contrario a qualsiasi idea di annessione vagheggiata da Trump, la Casa Bianca ha riservato un pesante 35% di prelievo. Il Canada ha risposto con pesanti dazi sull’acciaio, l’alluminio, i prodotti agricoli e i beni di consumo americani. Ma anche per Ottawa sono salvi i prodotti che rientrano nell’Usmca.
Il caso Svizzera
Dopo il viaggio senza risultati della presidente Karin Keller-Sutter, la Svizzera spera ancora di abbassare la sua tariffa choc del 39%, che pesa sull’export elvetico di orologi, macchinari di precisione e cioccolato, ma anche l’industria tech. L’oro, che rappresenta circa i due terzi dell’export svizzero Oltreoceano, invece, è esente.
Il nodo dell’India
La vicenda dell’India è emblematica per capire quanto i dazi, promossi da Trump come strumento di politica industriale, si sono trasformati sempre più in leva geopolitica. Dopo aver accusato Nuova Delhi di continuare ad acquistare petrolio russo, Trump ha firmato un ordine esecutivo che impone dazi aggiuntivi del 25% (in vigore dal 27 agosto), che si sommano a quelli già attivi, portando l’aliquota totale al 50%. L’India, che importa il 38% del proprio greggio dalla Russia, ha reagito con durezza: «Misure ingiuste e irragionevoli», ha replicato Nuova Delhi, annunciando azioni a tutela della propria sicurezza energetica.
Le proteste di Lula
Ancora più eclatante il caso del Brasile, che non ha un surplus nei confronti degli Usa. Inizialmente prevista al 10%, l’aliquota sull’import brasiliano è stata arbitrariamente aumentata fino al 50%, per sostenere la causa dell’ex presidente e amico Jair Bolsonaro, condannato agli arresti domiciliari. Ma le principali esportazioni brasiliane, tra cui aeroplani, alcuni metalli, combustibili e succo d’arancia, sono state escluse. Questo non ha impedito al presidente Lula di preannunciare un ricorso all’Organizzazione mondiale del Commercio (Wto) e di contattare i leader di India e Cina per coordinare una risposta comune del gruppo Brics a Washington.
Il negoziato con la Ue
Ma i negoziati continuano apertamente o dietro le quinte, anche con i Paesi che ufficialmente hanno già raggiunto un’intesa. Ad esempio con l’Ue. Il patto di Turnberry tra Ursula von der Leyen e Trump ha fissato al 15% il dazio omnicomprensivo sull’import europeo negli Stati Uniti. L’aliquota vale anche per auto e componenti, che per ora restano tassati al 27,5%, perché serve un ordine esecutivo specifico. E dovrebbe includere anche i farmaci, soggetti però a un’investigazione sotto la Sezione 232. Manca ancora una dichiarazione congiunta dell’accordo. Perciò non è noto quali saranno i beni esenti (si parla di aerei e loro componenti, alcuni prodotti chimici, alcuni farmaci generici, le materie prime e alcuni prodotti agricoli, tra cui il vino) e se è previsto un meccanismo di quote per salvare acciaio e alluminio, tassati al 50%.
L’incognita farmaci
Trattano ancora il Giappone, che ha raggiunto un accordo sul 15%, preoccupato per l’automotive; e la Corea del Sud (pure 15%). E poi c’è l’incognita sull’indagine in corso sui farmaci, aperta sotto la Sezione 232 del Trade Expansion Act. Per L’Ue dovranno rientrare sotto il dazio del 15%, ma Trump ha minacciato di imporre un prelievo fino al 250%. Insomma, tutto è in movimento. Ma già ora i consumatori statunitensi devono sostenere un’aliquota fiscale media sulle importazioni pari al 18,6%, la più alta dal 1934 calcola lo Yale Budget Lab. Nella storia moderna degli Stati Uniti, l’aliquota media ha oscillato tra il 2 e il 3%.
8 agosto 2025
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