
DAL NOSTRO INVIATO
TEL AVIV – I piani di occupazione della Striscia di Gaza sono segreti. Una cosa sono le dichiarazioni, un’altra gli obiettivi reali. C’è persino qualcuno che spera ancora che la marea montante di carri armati, jet, droni e mezzi blindati serva a convincere Hamas a liberare gli ostaggi e sciogliersi. Altri pensano invece che l’occupazione sia il primo passo verso l’annessione con quel che ne consegue: le città umanitarie/campi di concentramento, l’emigrazione volontaria/deportazione e, dulcis in fundo, la nascita della Riviera di Trump cioè l’espansione di Israele.
Da indiscrezioni raccolte dai media locali e da analisi dell’Institute for National Security Studies israeliano possiamo ipotizzare che l’occupazione dovrebbe avvenire per fasi: prima la conquista del Nord, poi l’espansione a Sud. Sappiamo che dovrebbe coinvolgere circa 5 Divisioni, per un minimo di 50 mila soldati, e durare cinque mesi con un costo di 18 milioni al giorno. Gli scopi dichiarati sono sempre gli stessi: liberare gli ostaggi, distruggere Hamas, far sì che Gaza non rappresenti più una minaccia per lo Stato ebraico.
La distruzione
L’ala militare di Hamas mantiene ancora due Brigate, la Gaza e la Khan Younis con circa 15 mila combattenti. Le nuove reclute sono «carne da cannone», giovanissime e poco addestrate, ma comunque in grado di compiere azioni di guerriglia. In mancanza di rifornimenti esterni il movimento di resistenza ha imparato a riciclare ordigni inesplosi israeliani trasformandoli in trappole capaci di mettere fuori uso anche i tank Merkava. Hamas regola ancora la vita di circa la metà dei gazawi. Quel milione di persone che vive tra le macerie di Gaza City, a ovest di Khan Yunis, nei campi profughi centrali e nell’area di al-Mawasi. Punisce i saccheggiatori dei convogli umanitari e passa per le armi i sospetti collaborazionisti.
Più a sud Hamas è debole. La scelta israeliana di armare milizie rivali ha funzionato. La più importante è guidata dal trentunenne beduino Abu Shabab che il 7 ottobre era in un carcere di Hamas per traffico di droga. L’ex vice premier israeliano Liberman lo accusa di contiguità con lo Stato Islamico, ma ciò non ha impedito alle sue milizie di controllare la città di Rafah sotto il Corridoio di Morag. Non è un caso se tre su 4 centri di distribuzione della Gaza Humanitarian Foundation che ha sostituito l’Onu nella gestione degli aiuti, siano nella zona controllata da Abu Shabab. Un modo per premiare il suo «governo».
La battaglia
La tattica per impossessarsi del 15 per cento della Striscia che ancora sfugge al controllo dell’Israeli Defence Force (Idf) assomiglierà a quella che ha permesso già di prendere l’85%. I militari divideranno le aree in settori, quindi ordineranno l’evacuazione dei civili e li costringeranno a passare davanti a telecamere e fucili in modo che nessuno nasconda armi od ostaggi.
Quindi aviazione e artiglieria demoliranno possibili postazioni di resistenza. I droni saranno i primi a entrare tra le macerie. I bulldozer e i blindati antimina apriranno la strada ai tank. Infine, toccherà ai fanti setacciare l’area. Secondo alcune stime, Hamas disporrebbe ancora di tunnel in cui nascondersi e da cui colpire. La stima sulle perdite tra i soldati israeliani è top secret.
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L’occupazione
La presenza militare israeliana nella Striscia prevista è di 5 anni, il tempo di preparare un governo alternativo ad Hamas. Per questo potrebbe essere coinvolta l’Autorità nazionale palestinese o qualche Stato arabo. Le Divisioni israeliane necessarie scenderebbero a due e il costo a 80 milioni al mese, al netto dell’usura dei mezzi.
I palestinesi evacuati/deportati dalle zone di combattimento dovrebbero essere collocati in aree dove Israele come potenza (ormai ufficialmente) occupante è tenuta a fornire (Articolo 55 della Convenzione di Ginevra) condizioni «non peggiori» di quelle precedenti. Se il momento zero venisse considerato il 6 ottobre 2023 sarebbe molto difficile riuscirci. Più probabile che Israele argomenti che i suoi doveri riguardano la situazione ad oggi 8 agosto 2025. Quindi niente scuole, strade, case, ospedali, ma solo acqua cibo, medicine e, forse, una tenda. Gli Usa sono disposti ad aiutare aumentando a 20 i centri di distribuzione della Gaza Foundation.
Il dopo
Quando e se lo Stato ebraico dovesse andarsene, cosa rimarrebbe di Gaza? L’ipotesi più accreditata è che si lavorerà per farne una «piccola Cisgiordania». Nell’altra area di teorico auto governo palestinese, gli israeliani controllano l’80% del territorio attraverso colonie e postazioni militari. I palestinesi sono confinati in aree chiuse da cancelli le cui chiavi sono in mano all’Idf. Sono i militari israeliani che decidono se un abitante della Cisgiordania può uscire dal suo villaggio o meno.
In più la Striscia di Gaza potrebbe essere divisa in «città-Stato» da 500 mila abitanti ciascuna con «governi» indipendenti uno dall’altro. Si diminuirebbe così il rischio della nascita di un’Hamas 2.0 sull’intera Striscia. In quest’ottica l’idea di Trump di incentivare la «migrazione volontaria» verso Paesi lontani adeguatamente retribuiti potrebbe tornare utile per svuotare progressivamente le diverse piccole Gaza.
8 agosto 2025
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