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Valeria Bruni Tedeschi: «A Venezia porto il mito di Eleonora Duse ma non è un biopic, non ne sarei stata capace»

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Valeria Bruni Tedeschi e il suo pensiero insieme leggero e profondo, sempre in fuga da se stessa. Parla per lampi impressionisti e coi piedi saldamente sopra le nuvole dell’attrice che è stata più attrice di tutte le altre, scomparsa nel 1924: Eleonora Duse. Valeria sarà protagonista alla Mostra di Venezia con due film: in gara per Duse di Pietro Marcello, poi Chien 51, il thriller distopico di Cèdric Jimenez.

C’è una preziosa ora di intervista inedita alla Bruni Tedeschi che Sonia Bergamasco, nel montaggio del suo bel docufilm Duse the greatest, ha dovuto sacrificare, racchiudendola in un minuto vista la ricchezza di testimonianze. Dice che il film di Pietro Marcello «non è un biopic, io non somiglio alla Duse, non era il nostro desiderio, non ne sarei stata capace. Piuttosto ho cercato di incontrarla, di parlare con lei e mi sembra di averla conosciuta, come un’amica. Pietro mi ha permesso di parlare di tutto quello che umilmente ho capito e non ho capito del mio lavoro di attrice, della vita, dei rapporti amorosi e dei figli, delle mie inadeguatezze e difetti, anche la Duse ne aveva, li ammette, ne parla».

Il regista le ha dato una ventina di libri («mi sono serviti quasi più della sceneggiatura») sulla grande artista, pioniera delle attrici moderne che scelgono, fondò la Libreria delle donne, fu a difesa della riservatezza («a che serve sapere come ho vissuto e perché ho creduto nell’arte?») e delle donne libere, tanto che a 27 anni piantò in asso l’uomo capitatole un po’ per caso che le aveva dato sua figlia Enrichetta, con la quale nelle tante lettere comunicava in francese. Attraverso gli occhi della figlia (Noémie Merlant,) il film, nei luoghi d’origine, Asolo Chioggia e Venezia, racconta il crepuscolo della vita di un’attrice che in scena sembrava non recitasse, non se ne percepiva l’atto. Nella reinvenzione scenica del passato e dei suoi protagonisti (c’è anche Mussolini) il film si specchia nell’uso di filmati autentici, come d’abitudine in Pietro Marcello.

Valeria, ribelle e moderna e inquieta come la sua musa («tentai con la danza ma non ero dotata, amavo la letteratura ma era la solitudine che non sopportavo, e volevo condividere nell’arte»), racconta di aver sognato Arrigo Boito, il compositore e librettista di Verdi con cui ebbe una relazione, prima di venir fatta «a pezzettini» da Gabriele D’Annunzio, lei che al Vate spalancò la fama al di fuori dai confini nazionale. «Nella seconda parte del sogno, al mare, avevo un appuntamento con la mia psicoanalista ma non volevo uscire dall’acqua, ho preferito restare nel mio inconscio artistico, mentre dovevo fare la Duse che dirigeva e interpretava La donna del mare del suo amato Ibsen».

Dice di avere in comune con la Duse il pianto facile, «da piccola il maestro in quinta elementare diceva, ho portato la spugna per le lacrime di Valeria; piangevo anche se prendevo 7 meno. Lavorando poi con Chéreau, alla sua ultima regia, prima di entrare in scena lavoravo per mezz’ora sulla disperazione, lui mi diceva ora sei tu e io dovevo rispondere oui. Era una temperatura emotiva, il tragicomico lo raggiungo se passo dal tragico».

Nel film si parla del rimpianto per non aver mai fatto Cechov e poco dell’unico (sfortunato) film della Duse, Cenere, da Grazia Deledda: «Lì mi sembra una morta che torna, una reliquia». Eleonora sul set distoglieva lo sguardo dalla cinepresa, intanto il cinema muto stava prendendo piede. E lei, quando poco dopo i 50 anni annunciò un primo ritiro, ogni giorno andava come spettatrice al cinema, divorando quella gestualità più contenuta. Sono le sue uniche immagini rimaste, assieme a quelle del funerale che attraversò l’Italia, a Roma il feretro non riuscendo a entrare in chiesa si dovette appoggiare a un cannone come base di sostegno.

Sul finire andava in scena spettinata, con qualche filo bianco tra i capelli che non voleva mascherare, la dentatura perfetta e le rughe, e non era un vezzo: era la verità inseguita in modo ossessivo. All’ultima tournée, in America, apparve come esile donna, pallida e dall’aria stanca, perduta nel palco immenso.

Valeria si è ispirata alle parole della Divina nelle lettere alla figlia, che in parte volle bruciare («quelle di D’Annunzio un po’ mi annoiavano»). Eleonora scriveva di quando, verso sera, a teatro, arrivava al portoncino degli artisti, la platea ancora deserta, i palchi come cuccette vuote, e lei, Eleonora, era lì, di nascosto, nei corridoi bui, clandestina, col vestito di tutti i giorni.

6 agosto 2025

6 agosto 2025

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