
David Berkowitz oggi è in carcere. Deve scontare 365 anni per omicidi plurimi commessi tra il luglio del 1976 e il luglio del 1977 a New York. Per mano sua, in quell’anno, sono morte sei persone e altre otto sono rimaste ferite in maniera più o meno grave.
In tutti questi anni Berkowitz non ha mai negato i suoi crimini, anzi, ha sempre cercato un modo per riportare l’attenzione su di lui, per tornare a quei giorni in cui la stampa e la polizia cercavano il «figlio di Sam», dal soprannome che lui stesso si era affibiato in una lettera indirizzata alle autorità e ai media.
Sceglieva le vittime con cura, prediligendo donne more sedute in macchina. A volte in compagnia di amiche, altre di un ragazzo. Si avvicinava loro e sparava. Per un anno New York – già sotto scacco di una criminalità in costante aumento – si è fermata per paura di incappare nel «killer della calibro 44», così chiamato per l’arma usata per le aggressioni. La polizia non aveva una pista e nemmeno un vero identikit.
Poi a fine luglio del 1977, grazie a una multa per parcheggio in sosta vietata la sera del suo ultimo omicidio, viene individuato e fermato. Lui dirà di averlo fatto apposta, che era arrivato il momento che tutti sapessero chi c’era dietro a quei crimini.
La sua storia è al centro della docuserie Netflix Conversazioni con un killer: Il caso Berkowitz.
La relazione clandestina
David Berkowitz viene dato in adozione tre giorni dopo la sua nascita, l’1 giugno 1953, a una coppia di veterani di fede ebraica, in quanto figlio indesiderato di una relazione tra la madre e un uomo d’affari sposato. Durante le elementari, il padre gli racconterà che la madre biologica era morta durante il parto, e che suo padre biologico soffriva troppo per tenerlo con sé: una storia che lo fece soffrire molto, rendendolo antisociale, cupo e solitario.
«Uscivo da solo e facevo atti di vandalismo – racconta Berkowitz dal carcere al giornalista Jack Jones -. Nessuno sospettava mai di me. Tutta la mia vita era una punizione. Sono arrivato al punto di comportarmi male solo per essere punito. Appiccavo incendi, così ero sicuro che mi avrebbero punito. Niente che causasse danni seri, ma quanto bastava per far arrivare i vigili del fuoco».
Militare in Corea
A tredici anni la madre adottiva muore per un tumore al seno, un evento che lo farà sentire ancora più abbandonato e rancoroso. Appena finito di studiare, nel 1971, si arruola. Voleva essere considerato un eroe, attirare l’attenzione e andare in Vietnam per combattere per il suo Paese. E invece, viene inviato in una zona demilitarizzata nella Corea del Sud, dove, per combattere la noia, inizia ad abusare di droghe.
Torna dall’esercito a 21 anni, nel 1974, senza ambizioni per il futuro né amici. Con il padre che nel frattempo si era risposato e trasferito in Florida, lasciandolo da solo. Nemmeno le relazioni con le donne vanno bene: loro non sembravano mai interessate e questo gli fa provare odio nei loro confronti (Berkowitz è considerato da alcuni l’antenato degli incel, i celibi involontari che odiano le donne).
E così, nel 1975, compie la sua prima aggressione: accoltella una ragazza incrociata per caso su un cavalcavia di New York. Lei sopravvive e lui capisce – grazie anche al film Taxi Driver, in cui si riconosce – che deve cambiare arma, e sceglie una pistola calibro 44.
Le prime aggressioni
È il 29 luglio 1976 quando il «killer della calibro 44» uccide per la prima volta. La sua vittima si chiama Donna Lauria, è in macchina con un’amica, Jody Valenti, colpita alla gamba. Lauria viene raggiunta da un proiettile alla nuca e muore sul colpo. Valenti vede Berkowitz di sfuggita: alla polizia lo descrive come un uomo bianco, alto 1 metro e 80 circa, con i capelli ricci.
«La prima volta è stata dura – racconterà lui dalla prigione -, perché era la prima e stavo finalmente facendo quello che volevo fare da tanto. Sentivo come se mi stessi vendicando».
Pochi mesi dopo, archiviato il caso Lauria-Valenti come un cold case, Berkowitz torna a colpire. Le vittime sono Rosemary Keenan e Carl Denaro. Si trovano in un parcheggio nel Queens, è il loro primo appuntamento. Si stanno banciando quando, all’improvviso, qualcuno inizia a sparare contro l’auto. Riescono a scappare, ma una volta raggiunto il locale dove si trovavano i loro amici, Denaro si accorge che un proiettile ha bucato il tettuccio raggiungendolo alla testa. Fortunatamente la carrozzeria ha assorbito l’impatto impedendo al proiettile di arrivare così forte da ucciderlo. Ne uscirà vivo, con una placca di metallo in testa.
Anche quel caso rimarrà senza colpevole, i due ragazzi non avevano visto nessuno per la polizia si tratta ancora di una questione di droga.
A novembre, sempre nel Queens, Berkowitz si scaglia contro Donna DeMasi e Joanne Lomino. Stanno chiacchierando sulla veranda fuori casa Lomino quando lui le vede e spara. DeMasi riporta solo qualche ferita, mentre Lomino viene colpita alla spina dorsale rimanendo paralizzata dalla vita in giù. Quell’incidente le farà sviluppare problemi di salute cronici che la porteranno con il passare degli anni alla morte. Ma anche questo caso viene accantonato.
New York in quegli anni deve gestire un crescente tasso di criminalità. Quasi ogni chiamata effettuata alla polizia è per colpi d’arma da fuoco o omicidi. In più, il fatto che in città ci fossero molti distretti, rendeva difficile il coordinamento tra le autorità e la conoscenza di tutti i casi. Per questo, per molto tempo, nessuno ha mai collegato queste aggressioni tra di loro.
«C’è un serial killer a piede libero»
Il 30 gennaio 1977 Christine Freund e John Diel vengono colpiti mentre sono seduti in macchina, di ritorno da una serata romantica al cinema. Ancora una volta nel Queens. Freund morirà in ospedale, mentre Diel riuscirà a sopravvivere.
Nella loro auto le autorità trovano un bossolo di piombo, simile a quello ritrovato su un’altra scena del crimine sempre nel Queens. Grazie a quella coincidenza, e alla testimonianza di un poliziotto che si è ritrovato su entrambe le scene, le autorità scoprono una connessione con i crimini dei mesi precedenti.
L’8 marzo 1977 colpisce ancora. Sempre nel Queens. «Stavo perlustrando il quartiere – racconta il killer -. Sarò stato lì circa un’ora, a camminare in giro. L’ho vista e l’ho fatto». Si chiamava Virginia Voskerichian. Era da sola e stava camminando verso casa. Le ha sparato in faccia, sfigurandola. È stata la sua terza vittima.
Arrivati a questo punto, il sindaco Ed Koch e il capo della polizia convocano una conferenza stampa annunciando che a New York c’è un serial killer a piede libero che usa una pistola calibro 44 per compiere i propri delitti.
La lettera di Berkowitz e la firma: «figlio di Sam»
Nel frattempo, Berkowitz viveva in appartamenti economici di quartieri periferici. Non aveva «un lavoro soddisfacente né una vita sociale. Mi sentivo uno scarto». E quindi, dopo una giornata di lavoro, usciva alla ricerca di una «preda». Se queste però gli sorridevano o gli chiedevano aiuto (come nel caso di una coppia rimasta incastrata nella neve con l’auto che chiede una mano per uscire) desisteva e non le uccideva più.
Il fatto, infatti, che qualcuno notasse la sua presenza o avesse bisogno del suo aiuto, lo faceva sentire «valido». Poi però andava comunque a cercare qualcun altro da uccidere.
Nell’aprile 1977 aveva iniziato a perdere il controllo con la realtà. Era diventato paranoico, si sentiva respinto, gli davano fastidio persino i cani che abbaiavano. Uno in particolare lo tormentava: il cane del vicino di casa Sam Carr. «Mi stava esasperando» racconta. E così, una notte, lancia una molotov contro la casa di Carr e spara al cane, che però sopravvive.
Il 17 aprile 1977 torna a compiere delitti nel Bronx. Le vittime sono Alexander Esau e Valentina Suriani, che viveva nello stesso isolato della prima vittima, Donna Lauria. Come per i casi precedenti, la coppia era in macchina. Entrambi vengono colpiti alla testa. Suriani muore sul colpo, Esau dopo due giorni. Questa volta però, Berkowitz lascia sul luogo del crimine una lettera indirizzata al capitano Joseph Borrell, a capo di una task force incaricata di trovare il killer.
Nel testo scrive: «Non sono un misogino, mi sento un outsider, mi piace cacciare. Sono il figlio di Sam. Tornerò, tornerò! Che va interpretato così: bang bang bang bang».
Una seconda lettera arriverà al giornalista del New York Daily News Jimmy Breslin il 30 maggio 1977, dove ripeterà l’intenzione di uccidere.
La Ford Galaxy gialla
Il 26 giugno 1977 aggredisce altre due persone nel Queens: Judy Placido e Salvatore Lupo. Entrambi ne escono con qualche ferita. Poi, il 31 luglio, questa volta a Brooklyn, si verifica l’ultima aggressione. Quella sera aveva puntato Stacy Moskowitz e Robert Violante, fermi in macchina dopo una cena e un film. Moskowitz morirà il giorno dopo, mentre Bobby, raggiunto al volto, sopravvivrà perdendo la vista da un occhio.
Durante le indagini, la polizia raccoglie la testimonianza di una donna che sostiene di aver visto un poliziotto fare una multa a una Ford Galaxy gialla parcheggiata in sosta vietata poco prima degli spari. L’auto risulta intestata a David Berkowitz. Decidono così di sentirlo come possibile testimone.
Lo contattano a casa ma, non ricevendo risposta, decidono di chiamare la polizia di Yonkers, che si occupava del distretto dove viveva. A rispondere è la centralinista Wheat Carr, figlia di Sam Carr, il vicino di casa preso di mira da Berkowitz. Carr racconta loro della molotov, dell’attentato al cane, e perfino di lettere minatorie firmate da lui.
Gli inquirenti della task force si presentano a casa di Berkowitz, sbirciano dentro la Ford Galaxy e notano un fucile in una sacca militare accanto a delle lettere indirizzate alla polizia e alla stampa di Suffolk. La grafia è molto simile a quelle firmate dal «figlio di Sam».
Appena Berkowitz esce di casa, le autorità lo fermano. Lui gli sorride: «Mi avete beccato, perché ci avete messo tanto?». Secondo i suoi racconti, era stato lui a scegliere di farsi arrestare: era arrivato il momento che tutto il mondo sapesse che era lui il volto del killer che tutti cercavano.
A casa sua le autorità trovano una situazione di forte disagio. Aveva ritagliato dai giornali le foto delle ragazze che aveva ucciso, e imbrattato i muri con scritte e buchi, sostenendo che nelle pareti vi abitassero i demoni. In più riteneva che fossero stati i cani a dirgli di compiere i delitti, attraverso il loro abbaiare. In particolare quello di Carr. Per questo si era fatto chiamare «il figlio di Sam», per questo suo rapporto con il vicino di casa.
La condanna e le dichiarazioni successive
Berkowitz si è sempre dichiarato colpevole ed è statocondannato a sei ergastoli per omicidi plurimi, per un totale di 365 anni di carcere.
Dopo la sua incarcerazione ha raccontato che la storia dei cani e il soprannome «il figlio di Sam» era un’invenzione: «Sapevo che sarei stato arrestato e quindi ho allestito tutto quel teatrino» ha raccontato.
Poi, nel 1993, probabilmente alla ricerca di nuove attenzioni, ha aggiunto che faceva parte di una setta satanica che lo avrebbe aiutato a compiere quelle aggressioni. Una versione che non convinse: dopo che era finito in carcere, erano finite anche le aggressioni.
Il caso delle calibro 32
Solo dopo il suo arresto un’altra donna, Wendy Savino, si farà avanti per denunciare di essere stata aggredita anche lei da Berkowitz. Era successo il 9 aprile 1976, tre mesi prima del primo omicidio ufficiale. Stava andando a prendere la macchina quando l’uomo le ha sparato cinque volte, colpendola al braccio e alla schiena.
Savino era stata colpita da una calibro 32 e non ci sono prove che lui avesse mai posseduto quell’arma. Eppure ci sono molti punti in comune: era una donna ed era in macchina, come la maggior parte delle vittime di Berkowitz, senza considerare l’identikit quasi perfetto che lei aveva realizzato dopo l’aggressione. Lui però ha sempre negato.
Oggi Berkowitz ha una nuova identità, si è convertito al cristianesimo e invia lettere di scuse per i suoi omicidi. Non si fa più chiamare «il figlio di Sam», bensì «il figlio della speranza».
4 agosto 2025 ( modifica il 4 agosto 2025 | 12:36)
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