
Non se l’è sentita. Louis Har si è rifiutato di guardare l’ultimo video pubblicato da Hamas. Non ha abbastanza anticorpi per sopportare la visione del giovane Evyatar David ridotto pelle e ossa in un tunnel di Gaza. Non è l’unico ostaggio liberato che non riesce ad affrontare quelle immagini. Louis, 72 anni, è un contabile argentino-israeliano — ma anche un attore e un ballerino — ed è stato prigioniero 129 giorni nella Striscia. Il 7 ottobre è stato rapito con la famiglia dal kibbutz Nir Yitzhak. I miliziani lo hanno tenuto prigioniero al secondo piano di un palazzo. Il 12 febbraio 2024, alle due di notte, dopo un’esplosione terribile in cui pensava di essere morto, una mano ha afferrato il suo braccio e in ebraico gli ha detto «Tranquillo, ti portiamo a casa». Era l’esercito israeliano.
Non ha visto il video, glielo hanno raccontato?
«Sì. Sono distrutto per quel povero ragazzo e per la sua famiglia. Mi chiedo che cosa stiano provando, è straziante. Questa è pura propaganda di Hamas, fa parte del gioco di terrore psicologico che cercano di infliggere alla gente di qui. È il tentativo dei terroristi di fare pressione politica sul governo israeliano. Cercano di avere più peso nei negoziati per rilasciare gli ostaggi secondo i loro termini. Mostrano la denutrizione a Gaza anche attraverso i prigionieri. Dicono che è una questione umanitaria, eppure loro stanno bene e fanno morire di fame i nostri ostaggi».
In queste ultime settimane si parla spesso della malnutrizione nella Striscia: una persona su tre non mangia tutti i giorni.
«La fame a Gaza non è colpa di Israele. I camion con gli aiuti entrano, ma gli uomini di Hamas rubano le scorte che sono destinate alla popolazione. Hamas è responsabile».
Le Nazioni Unite, così come molte ong, però dicono che quei camion sono troppo pochi.
«Non è così, è propaganda. La povera gente di Gaza è affamata dal gruppo islamista».
Lei è stato ostaggio come Evyatar. Quali erano i suoi pensieri e le sue paure?
«Ho avuto la fortuna di non stare in un tunnel. Noi eravamo nascosti in un appartamento. Mangiavamo. Ci trattavano male, certo, ma avevamo abbastanza cibo, era un’altra fase della guerra. All’inizio cucinavo anche per i terroristi. Cucinavo per tutti, come a casa. Raccontavo storie per distrarre i miei compagni di sventura. Solo verso la fine della prigionia hanno iniziato a darci un pezzo di pita al giorno. Avevo paura dei bombardamenti. Ma il pensiero che mi ossessionava era la mia famiglia. Non sapevo cosa fosse successo loro e mi dispiaceva pensarli preoccupati per me».
E ora che è tornato?
«Da quando sono in Israele, non faccio che manifestare e battermi per la liberazione degli ostaggi. Nessuno di noi potrà guarire e superare il trauma finché gli altri saranno a Gaza. Devono liberare tutti. La guerra deve finire per le nostre famiglie e per il popolo palestinese. Hamas fa di tutto perché il mondo stia dalla sua parte. Bisogna sedersi ai tavoli e trovare un accordo».
Molti accusano il governo Netanyahu di non volere davvero un accordo.
«Non sono un politico, non voglio commentare le scelte di chi guida il Paese. So solo che gli ostaggi devono tornare e serve un cessate il fuoco immediato».
Come si sopravvive allo strazio della prigionia?
«Non abbiamo mai perso la speranza. Ero con il fratello della mia compagna, Fernando. Siamo stati uno la spalla dell’altro. Se potessi parlare a Evyatar gli direi: “Ti prego ragazzo, non smettere di credere che tornerai libero”».
Dopo l’ultimo video di Hamas, alcuni membri del Forum delle famiglie hanno parlato di «secondo Olocausto». Che cosa ne pensa?
«Non mi sento di usare questa parola, ma ci avviciniamo. Sono molto preoccupato dall’antisemitismo dilagante nel mondo».
Che futuro hanno il popolo palestinese e quello israeliano?
«Senza Hamas, io vedo la pace. Vivevo in un kibbutz».
2 agosto 2025
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