
Nel 1958, Hannah Arendt, nel prologo di
Vita activa
, testimonia con un certo stupore le reazioni suscitate dal lancio dello Sputnik, il primo satellite artificiale mandato in orbita con successo l’anno prima, e salutato dal mondo come «il primo passo della liberazione degli uomini dalla prigione terrestre». La Arendt fa notare che, benché i cristiani avessero parlato della terra come di una valle di lacrime e alcuni filosofi fossero arrivati a considerare il corpo come una prigione dell’anima, fino ad allora nessuno aveva mai concepito la terra come un carcere. «Abbiamo rinunciato a Dio, che era un Padre celeste e, in quanto padre, dialogava con la madre Terra» scrive con profetica visione la Arendt, aggiungendo che «lo stesso desiderio di evadere dalla prigione della terra si rivela nel tentativo di creare la vita in una provetta per produrre esseri umani superiori».
In questi settant’anni il cielo è diventato ormai un’autostrada di satelliti — ne orbitano sulle nostre teste più di 7 mila, compresi quelli trasformati in detriti spaziali — tanto da rendere difficile, nelle notti di San Lorenzo, distinguere le stelle cadenti dall’affollarsi di scie artificiali.
Cosa significa, per la nostra natura umana, un cielo pieno di artefatti? L’antica maieutica del cielo è sempre stata quella di suscitare timore, stupore e le domande che, da quel timore e da quello stupore, scaturiscono. E le domande degli uomini, dalla notte dei tempi, sono sempre le stesse: «Che senso ha tutta questa misteriosa immensità?», «E i miei giorni, che senso hanno?». Ricordiamo i meravigliosi versi di Leopardi nel
Canto notturno di un pastore errante nell’Asia. «Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,/ Silenziosa luna?/ Sorgi la sera, e vai,/ Contemplando i deserti; indi ti posi./ Ancor non sei tu paga/ Di riandare i sempiterni calli?».
Gli animali, per quanto abbiano un’intelligenza che scopriamo ogni giorno più complessa, non sarebbero mai in grado di farsi domande perché vivono nella consapevolezza dell’istante e tutta la loro interrogazione è legata alla sopravvivenza e a quello che accadrà a breve.
È la parola che ci rende uomini e la parola esiste proprio per interrogarsi. Ora che la parola è stata sostituita dalle immagini e che, quando esiste, contempla solo delle risposte a domande inessenziali, è forse il caso di iniziare a riflettere su quanto questo abbia influito sulla gravissima crisi, prima di tutto educativa, della nostra opulenta società occidentale.
Le civiltà possono finire per guerre, invasioni, crisi economiche e degrado dei costumi, ma possono finire banalmente, come sta succedendo oggi, per un eccesso di comodità. Negli anni Novanta non era necessario essere dei veggenti per intuire la catastrofe che si stava avvicinando, bastava essere persone capaci di osservare la realtà e avere uno spirito critico. Già nel 1995 avevo profetizzato, nel mio libro Il cerchio magico, l’arrivo di un orco che attraverso lo strapotere degli schermi televisivi faceva lo shampoo al cervello dei bambini, rendendoli proni al suo motto: Un mondo pulito e obbediente, pancia piena e in testa niente. Internet era di là da venire e apparivano i primi mastodontici telefonini. La folle accelerazione degli ultimi trent’anni è riuscita a portare a termine il piano dell’orco: dipendenza, distrazione, manipolazione, passività, accompagnate dalla totale assenza di pensiero critico. L’allarmante numero di Neet, ragazzi che non studiano e non lavorano nel nostro Paese, superati solo per numero dalla Romania, ci parla del dilagare dell’apatia depressiva/distruttiva che ha inghiottito le ultime generazioni. La prigione del mondo si è trasformata nella prigione della stanza dove, grazie all’iperconnessione, i ragazzi si creano la propria realtà di libertà artificiale.
So bene che non si può generalizzare. Ci sono tanti giovani luminosi, pieni di energia e di coraggio ma, quando ci si sofferma a parlare con loro, ci si rende presto conto che hanno avuto la fortuna di incontrare nella loro vita un adulto — genitore, maestro, professore, amico — che li ha visti e che li ha saputi guidare, prendendosi cura di loro con autorevolezza e attenzione. Se c’è una frustrazione, in questi ragazzi, è proprio quella di non essere presi sul serio, di frequentare delle scuole e delle facoltà che concedono di procedere con i motori al minimo e di affacciarsi in un mondo del lavoro fin da subito umiliante, segnato dal precariato e dagli stage gratuiti, che li costringe a restare in famiglia fino oltre ai trent’anni o a emigrare.
Nel mio libro del 2019, Alzare lo sguardo, parlavo dei bambini-erba. Sono quelli lasciati crescere così come viene, confidando nella loro innata sapienza. Il loro destino — cresciuti con adulti adoranti, senza regole, senza sfide, senza sconfitte e senza nessuna resistenza anche al minimo stress e con il tablet in mano fino dal passeggino — è quello di essere divorati dalla virtualità.
La terra è diventata davvero la prigione di cui parlava Hannah Arendt, ma si tratta della proiezione della nostra prigione interiore che ci vede ormai schiacciati tra un cielo opaco e silente e una terra nemica che si sta ribellando alla nostra prepotenza. Tutte le culture umane, fin dall’antichità, hanno riconosciuto il Cielo come Padre, la Terra come Madre, e la pienezza della vita come un dialogo incessante tra noi e queste due realtà.
Il senso di impotenza che domina il nostro tempo, la diffusione di visioni catastrofiche, di cui noi ci sentiamo gli unici responsabili, ci separano dal senso della vita. Il nichilismo sordamente ottuso che domina i nostri giorni pone davanti a noi solo la frustrazione del fallimento. Il mondo è niente, e noi siamo dei niente che vagano in un mondo senza senso. Siamo diventati ciechi e sordi al grande canto della vita. Eppure il senso della vita è sempre lì, davanti ai nostri occhi. Ogni mattina il sole sorge e quella forza luminosa dà il la alla grande sinfonia del vivente. Noi siamo immersi in questo flusso, perennemente sospesi tra la luce e l’ombra, tra nascita e morte, tra cielo e terra, tra scegliere l’oscurità oppure inserirsi nella vitalità luminosa che tutto, intorno a noi, costantemente crea.
Quel senso altro non è che quella luce arcana che si manifesta nello sguardo dei bambini quando vengono al mondo. La luce dello stupore, la luce dell’innocenza. Non solo nei bambini, ma anche nei cuccioli di ogni specie e nei nidiacei che, appena si affacciano dal nido, si guardano intorno con meraviglia.
Abbiamo bisogno che si torni a parlare del Bene, il bene dell’etica e non il bene confusionario dei moralisti. Fondamento dell’etica umana è da sempre quello declamato nel Deuteronomio: «Ho posto davanti a te la vita e la morte. Scegli la vita». Se ci sentiamo carcerati, questo senso di oppressione nasce proprio dall’aver scelto per troppo tempo la morte, per avere chiamato troppo a lungo bene ciò che in realtà è male. Il nostro pianeta sta vivendo una crisi gravissima. Le guerre divampano come fuochi sospinti dal vento, ogni giorno decine di migliaia di innocenti vengono sacrificati sull’altare dei deliri demoniaci del potere e del denaro, ormai ingovernabili.
Eppure è proprio la storia delle passate terribili tragedie che ci rivela le straordinarie possibilità dell’umano. Penso a Takashi Paolo Nagai, il medico sopravvissuto alla bomba di Nagasaki e alla perdita della moglie arsa viva in quell’osceno rogo, che ha vissuto per anni malatissimo per le conseguenze dell’atomica in una piccola capanna di legno di quattro metri per quattro — il Nyokodo — continuando a testimoniare la scelta dell’amore come unica via di salvezza. Penso a Viktor Frankl, lo psichiatra sopravvissuto ad Auschwitz che, nel suo irrinunciabile libro
Uno psicologo nei lager, divide gli uomini in due sole categorie: quelle per bene e gli altri. Le persone per bene, sostiene, si distinguono per essere rimaste anständig, vale a dire fedeli in qualche modo alla loro rettitudine umana.
Proprio nel suo libro racconta dell’incontro con una giovane donna ormai in fin di vita. «Sono grata al mio destino per avermi colpita così duramente», gli aveva sussurrato durante una visita, «perché nella vita di prima ero troppo viziata e non avevo nessuna ambizione spirituale». Negli ultimi giorni, racconta il medico, era come trasfigurata. «Quest’albero» gli aveva confessato indicandogli un ippocastano in fiore al di là della finestra dell’infermeria, «è il mio solo amico nei momenti di solitudine, con lui parlo spesso». Turbato dalle sue parole e convinto che stesse delirando, Frankl le aveva chiesto se l’albero le avesse mai risposto. «Sì» aveva annuito. «E cosa le dice?». «Io sono qui. Io sono la vita. La vita eterna».
2 agosto 2025 (modifica il 2 agosto 2025 | 14:48)
© RIPRODUZIONE RISERVATA
2 agosto 2025 (modifica il 2 agosto 2025 | 14:48)
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