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L’ex top manager Fiat Garuzzo: «Dopo la vendita di Iveco, Torino produrrà lavoro solo per baristi e camerieri. Diamo un posto nei Cda ai sindacati»

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«Ci abbiamo messo sette anni per creare il leader europeo di Tir e furgoni, acquisendo tutti i concorrenti in Uk, in Spagna e in Italia, inclusa la Ford New Holland. Adesso in una notte Iveco è diventata indiana, Torino perde l’ultimo pezzo di grande industria e io mi sento davvero molto triste». Per Giorgio Garuzzo, 87 anni, ex top manager Fiat per 20, ceo di Iveco dal 1984 fino al 1991, e uscito dal gruppo nel 1996 per dissidi con Romiti, la cessione di Iveco a Tata Motor è la dismissione industriale più «grave» e «drammatica» della galassia Exor perché costituisce una via di non ritorno per il futuro del Paese nei giorni in cui la cassa integrazione corre in tutto l’indotto piemontese della metalmeccanica (+68% nei primi sei mesi dell’anno).  «Dopo le cessioni di Comau, Marelli, Fiat, e ora Iveco, mi domando che cosa faranno i nostri giovani. Tutti impiegati nel turismo? Davvero crediamo ancora a questa favola?»

Ingegner Garuzzo, cosa non la convince delle nozze di Iveco con gli indiani di Tata Motors?
«Tata compra la nostra rete commerciale, quindi il mercato. Non illudiamoci dalle parole di rito. Se avrà convenienza a spostare produzioni in India, lo farà. Io temo soprattutto per il futuro degli stabilimenti italiani dei piccoli motori, come Foggia ma anche Suzzara. E poi è a rischio l’indotto dei fornitori che esce  molto indebolito da questa operazione. È sempre il solito copione: l’abbiamo visto in passato con l’ex Fiat Ferroviaria. Appena comprata, i francesi di Alstom hanno ceduto la licenza del pendolino ai cinesi. Prima ancora con Telettra. E più recentemente con Marelli che è stata acquisita, finita in crisi finanziaria e poi comprata dai creditori. Quando la testa di una multinazionale è altrove, l’Italia, ma  soprattutto Torino, non contano più niente».

Da tempo si diceva in ambienti finanziari e industriali: «Iveco non può andare avanti da sola perché troppo piccola, ha bisogno di un partner internazionale». Che ne pensa?
«Balle. Iveco è leader nel suo settore: numero uno in Italia, in Spagna, in Inghilterra e leader in Francia e Germania. Tanti anni fa, più di 40, quando ho preso la guida dell’azienda, Iveco perdeva un sacco di soldi: 120 miliardi di lire in un semestre. Poi è diventata una macchina da soldi, ha fatto acquisizioni, si è elevata a leader tecnologico. Poteva andare avanti da sola? Certamente. In Europa l’unico vero concorrente è Mercedes».

Tata ha rassicurato: «Torino resterà centrale» nelle dinamiche del gruppo.
«Per un po’ di tempo sarà senz’altro così. Ma non in eterno. Tata non ha nulla da portare a Iveco sotto il profilo tecnologico, né industriale. Non è uno scambio alla pari».

Allora perché  John Elkann ha venduto l’ultimo gioiello?
«Per i soldi. E perché l’industria non interessa più: troppo complessa da gestire. Meglio comprare una miniera di terre rare. Sono convinto che prima o poi venderanno anche Cnh».

L’Avvocato Gianni Agnelli invece voleva rilanciare Iveco a tutti i costi iniettando anche capitali.
«Romiti e Agnelli mi affidarono un’azienda che era decotta. Ma grandi investimenti a disposizione non ne ho mai avuti. Abbiamo fatto acquisizioni con l’indebitamento. Ha funzionato. Ma era un’altra epoca. Oggi a chi importa in Italia dell’industria nazionale?».

Il Comune di Torino ha convocato le aziende in commissione lavoro. Basterà ad avere garanzie? Serve l’intervento del governo con la golden power?
«La politica fatica ad arginare queste vendite. Ma deve monitorare e chiedere garanzie. A mio avviso ci vorrebbe comunque più coraggio, sempre che non sia troppo tardi. Magari un maggior coinvolgimento dei sindacati».

In che senso?
«Ai miei tempi era impensabile ma oggi ritengo necessario l’ingresso dei sindacati nei cda delle grandi aziende, proprio come avviene in Germania. È l’unica forza che può chiedere garanzie per i lavoratori e per i fornitori. Non dimentichiamo che Iveco ha tanti fornitori italiani. Chissà se Tata continuerà a lavorare con loro, e soprattutto a quali condizioni. Stiamo perdendo l’industria in Italia, ci vuole un piano strategico».

Come vede il futuro di Torino?
«Ai margini. In città si parla tanto di turismo e di eventi. Ma così produciamo solo lavoro povero e precario. E i nostri giovani se ne vanno a lavorare all’estero. Mica possiamo sfornare solo baristi e camerieri».

La sua invettiva su Torino «città per camerieri» già espressa ai tempi della vendita di Comau fece arrabbiare tanti. Cosa c’è che non va nel turismo?
«Niente. E io amo i camerieri e la loro professione. Ma bisogna essere onesti: in Italia non esiste l’industria del turismo. Svendiamo persino i grandi alberghi a gruppi esteri, non abbiamo una compagnia aerea nazionale. Quindi ci dobbiamo accontentare di piccole attività che possono offrire poco ai nostri giovani . Davvero il nostro futuro è servire il pranzo ai turisti stranieri?»

In città «resiste» Mirafiori. A novembre partirà la linea della Fiat 500 ibrida. Basterà al rilancio dell’auto?
«Così è vivere di elemosina. Negli anni ruggenti Mirafiori produceva 600 mila auto e impiegava 70 mila addetti. Adesso se va bene siamo su 35 mila vetture e 3 mila operai in Carrozzeria. Il momento è davvero drammatico».

Come se ne esce?
«Il know how del Paese non si svende, mai e a nessun prezzo. L’unico aspetto positivo di questa vicenda di smembramento industriale è la vendita della parte militare di Iveco a Leonardo. L’ex Finmeccanica è ormai una multinazionale di grandissimo peso e capacità. Sia nella Difesa che nell’Aerospazio. In questi settori Torino potrà dire ancora la sua. Sull’auto temo che siamo al tramonto di una stagione che è stata formidabile ma che ora non c’è più».


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2 agosto 2025

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