
Costume da bagno, calzoncini, gonne, canottiere: la fatica di piacersi in estate può essere ancora maggiore. Lo conferma uno studio di AstraRicerche per l’Osservatorio Fitness & Benessere, secondo cui addirittura due italiani su tre si sentono a disagio all’idea di scoprire il corpo indossando vestiti estivi, un’insicurezza più diffusa tra le donne e che, con l’avanzare delle età, non diminuisce ma assume connotazioni diverse. Vedersi brutti può essere una sensazione normale, ma se diventa una condizione perenne significa che siamo davanti a un disagio, qualcosa che va oltre il legittimo desiderio di mettersi in discussione. La tendenza a ingigantire i propri difetti fisici, spesso inesistenti, trasformandoli in ossessione, l’ansia che deriva dall’esporsi costantemente allo sguardo degli altri, come se ci si trovasse in un «tribunale», ha un nome: dismorfofobia (dal greco dismorphé, forma distorta, e phobos, timore). Di cosa si tratta? Lo abbiamo chiesto ad Antonella Somma, professoressa di Psicologia clinica presso la Facoltà di Psicologia dell’Università Vita-Salute San Raffaele.
Che cos’è la dismorfofobia?
«Il termine tecnico è disturbo da dismorfismo corporeo (Ddc). Si tratta di una preoccupazione eccessiva per uno o più difetti del proprio aspetto che però, agli occhi degli altri, appaiono insignificanti. L’ossessione interessa tutto il corpo, ma si concentra in particolare sul viso: si va dal dermatologo per iniziare a fare una serie di trattamenti, una sorta di escalation che alla fine porta dal chirurgo estetico. Può colpire chiunque, anche chi non ha particolari imperfezioni. Oggi tutti dobbiamo fare i conti la nostra immagine: non solo quella riflessa nello specchio, ci sono ormai molti mezzi che la veicolano, dai collegamenti su Zoom alle foto, ai selfie».
Chi non si sente a suo agio con sé stesso non ha il diritto di migliorarsi?
«Nella dismorfofobia, come nella quasi totalità dei disturbi legati alla salute mentale, non c’è un confine netto che distingue ciò che è sano da ciò che è patologico. La soglia viene superata quando la sensazione di inadeguatezza diventa così dominante da compromettere la qualità della vita. Il classico esempio è la rinoplastica: il paziente generalmente è contento del risultato dopo l’intervento di chirurgia estetica. Quando c’è di mezzo il dismorfismo, invece, no: si ricorre a interventi su interventi, perché dopo aver corretto il primo difetto si trovano subito altre presunte imperfezioni».
Quali sono i campanelli d’allarme?
«Innanzitutto, i difetti fisici non sono stati rilevati dalle altre persone. Poi adottare comportamenti ripetitivi o rituali (toccarsi la parte difettosa, guardarsi allo specchio), sviluppare pensieri ossessivi, provare la costante sensazione di sentirsi osservati. Inoltre, cercare costantemente rassicurazione dagli altri e limitare le relazioni sociali».
Sono più le donne a soffrirne?
«Gli studi concordano sul fatto che ci sia una prevalenza nel genere femminile. La più grande studiosa sul tema è la psichiatra americana Katharine A. Phillips, cha ha fatto un’importante ricerca proprio sul dismorfismo nelle donne. Eventi di vita avversi o traumatici durante l’infanzia (situazioni di trascuratezza, abbandono o abuso) e adolescenza (episodi di bullismo) sono fattori di rischio e sono associati generalmente all’universo femminile. Poi c’è la pressione sociale che certamente condiziona maggiormente le donne. Non dobbiamo però dimenticare che esiste anche la dismorfia muscolare (o vigoressia), ovvero la paura di avere un corpo troppo minuto o il desiderio di avere muscoli più definiti: è un fenomeno in aumento, anche tra adulti, e colpisce principalmente il genere maschile».
La dismorfofobia può manifestarsi a qualsiasi età?
«In Gran Bretagna un recente studio ha preso in considerazione più di 7mila e 600 bambini e ragazzi tra gli 11 e i 19 anni: è emerso che questo disturbo è molto presente nella fase adolescenziale. Come spesso succede nel contesto clinico, “vedendo il film al contrario”, quello che si osserva nei pazienti è che chi da adulto ha sofferto di dismorfismo ha registrato l’esordio durante l’adolescenza. Come dire: è un momento critico per tutti, ma se c’è questo disturbo sarà proprio durante l’età giovanile che inizierà a comparire in maniera sintomatologica. È importante considerare il periodo adolescenziale anche per l’aspetto preventivo, discriminando dove la problematica è legata allo sviluppo e quindi si risolverà da sola e dove invece è qualcosa che si somma ad altri fattori di rischio».
C’è una comorbilità con altre patologie?
«Il dismorfismo si colloca nell’area dei disturbi ossessivo-compulsivi e si associa a problematiche come ansia, depressione, rischio suicidario. Non necessariamente invece è legato ai disturbi del comportamento alimentare».
Quanto è difficile riconoscere di soffrire di dismorfofobia?
«La questione è proprio questa: la persona ha scarsa consapevolezza del fatto che è un problema legato all’area della salute mentale. Quando si riesce a fare questo passaggio, lo scoglio più grosso è superato».
Come si cura?
«Con approcci psicoterapeutici, tra cui la terapia cognitivo-comportamentale, o approcci psicodinamici che, nei casi più critici, possono essere accompagnati da una terapia farmacologica».
Possiamo dire che la dismorfofobia è una delle malattie dei nostri tempi?
«Non è un concetto recente: il disturbo da dismorfismo corporeo è stato descritto per la prima volta dallo psichiatra italiano Enrico Morselli nel 1891. Ma è una sensazione che oggi, con la dovuta distinzione tra condizione patologica e no, tocca tutti e il tema, anche grazie a film come The Substance con Demi Moore – che riflette su come viene percepito il corpo delle donne, ma anche su come noi stesse lo guardiamo e ci analizziamo – è al centro del dibattito».
1 agosto 2025
© RIPRODUZIONE RISERVATA